lunedì, Febbraio 24, 2025
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IL DEGUSTATORE E L’INFINITO di Francesco Falcone

La parola degustatore evoca   immediatamente una   scena. Spiando dalla   finestra di   una monotona   sala   ben   illuminata, a metà mattina, vediamo   donne   e uomini di   diverse età, possibilmente in   salute e   spesso “in carne“, circondati dai loro  arnesi:   un  tavolo ampio, una tovaglia bianca, una serie di calici   slanciati e sobri, un paio di   cavatappi, qualche bizzarra sputacchiera e tante bottiglie di vino   anonimizzate con stagnola o calze specifiche, e numerate in ordine progressivo. 

Nel frattempo ammiriamo i degustatori appena  chini sul bicchiere, intenti ad  annusare e  sorseggiare i  liquidi di quei flaconi coperti in  precedenza. È tutta gente   che non usa profumi  invadenti e non  fuma,  in compenso sputa  senza  vergogna. Si  tratta di una sessione di  assaggio  svolta secondo una  prassi ormai consolidata e  condivisa: i degustatori sanno che attraverso questo protocollo porteranno  a casa  un  lavoro ben fatto per sé stesso, al di là degli esiti e degli approdi.

I degustatori svolgono un’attività pratica senza essere produttori di qualcosa. Sono una figura di artigiani intellettuali: il loro intento principale non è (non dovrebbe essere) assaggiare più vini possibile in una giornata di lavoro, ma arrivare a valutarli criticamente, in modo tanto rigoroso quanto ispirato. È un lavoro pratico che si traduce in un risultato che sta a metà tra il giornalismo e la saggistica. Per svolgerlo con competenza occorre una solida maestria tecnica. 

In tutti i campi del professionismo la maestria tecnica si fonda su abilità sviluppate al massimo grado. Se è vero che per formare un musicista professionista occorrono almeno diecimila ore di pratica (più di otto anni di lavoro, calcolando circa quattro ore al giorno per trecento giorni l’anno), anche per il degustatore professionale il percorso di apprendistato non dovrebbe essere diverso.

 Infatti così è, nei casi più felici. Un paio di esempi.   Armando Castagno, il più grande   degustatore che io   conosca, negli ultimi dieci anni considerato il punto di   riferimento   della critica italiana (e non solo), nel   decennio precedente,  quando era parecchio meno   conosciuto di oggi (benché già in possesso di un   poderoso talento interpretativo) ha   viaggiato, assaggiato, imparato, lasciandosi inizialmente ispirare da   Sandro Sangiorgi,   un  maestro per tanti. Tra le donne, Vania Valentini, approdata tardi nel mondo del    giornalismo eppure oggi assaggiatrice preparatissima, vera esperta di Champagne, si è per anni formata   presso l’Alma di Colorno, all’ombra dei bravissimi Massimo Castellani e Pierluigi Gorgoni.

Come loro, la nuova generazione di degustatori italiani ha fatto una lunga gavetta:  da Fabio  Pracchia  a  Giancarlo Gariglio; da Samuel   Cogliati a Eleonora Guerini; da  Paolo De  Cristofaro a  Giampiero  Pulcini; da Filippo  Apollinari a Andrea Gori; da  Chiara Giovoni a  Alessandra Piubello;  da Duccio  Armenio a Nicola Bonera; da  Antonio Boco a Jacopo Cossater; da Alessandro  Morichetti  a  Alessandro  Franceschini; da Monica Coluccia a Mauro Erro; donne e uomini di  notevole talento,  di  grande competenza e di solida formazione.

Numerosi studi indicano che l’abilità tecnica, quanto più progredisce, tanto più viene rivolta agli aspetti problematici dell’attività, mentre le persone con capacità elementari si preoccupano essenzialmente che le cose comunque funzionino. Ai livelli più elevati, la tecnica non è più un’attività meccanica. 

Soltanto una volta imparato a svolgere bene un lavoro, le persone sono in grado di capire a fondo, con il cuore, con la pancia e con il pensiero, ciò che stanno facendo. È a livello della piena padronanza che emergono i problemi etici di un mestiere: chi non arriva a quel grado di consapevolezza considererà un’attività pratica una semplice attività pratica, un gesto tecnico solo un gesto tecnico, un metodo di lavoro solo una liturgia imposta dall’alto, nei secoli dei secoli. 

Eppure se è vero che il progresso di una disciplina, di qualsiasi disciplina, non consiste nel diventare più rigorosa, ma più immaginativa, allora questo principio vale anche e soprattutto per la pratica della degustazione. 

A tal proposito ho capito, in tanti anni assaggi e riflessioni, che in degustazione la tecnica non può essere scissa da molteplici suggestioni e da conoscenze “altre“. Del resto la degustazione non è il fine di nulla, ma uno dei mezzi a nostra disposizione per conoscere e raccontare un vino, il suo produttore, i suoi luoghi, il suo contesto specifico.

 Ricordo qui che ogni aspetto del comportamento del   liquido odoroso è il misterioso   risultato dei tanti   elementi del suo pedigree: la storia e le consuetudini   produttive del   suo luogo d’origine, il vitigno da cui   prende forma, le caratteristiche della terra di cui si   ciba, il clima e gli eventi atmosferici che lo plasmano   (in   quello specifico appezzamento,   in quell’annata) e  altre variabili di tipo genetico, agronomico,   enologico e   filosofico che  contribuiscono al risultato finale.        

Allo stesso tempo, così come nelle cose della vita ho compreso che le parole “amore” e “rispetto” sono sinonimi, anche il mio rapporto con il vino si va indirizzando in quella direzione: occorre aprirsi alla comprensione. Il vino è ciò che noi siamo, incontrandolo. E  più noi saremo disponibili al suo ascolto, più noi saremo ospitali e capaci di lasciarlo esprimere, più quel liquido sarà in grado di raccontarsi. 

La degustazione non è materia per burocrati, non si può spicciare in modo sbrigativo, non è mestiere per casellanti autostradali: al contrario, necessita di una robusta dose di entusiasmo, di gioia, di curiosità e di energia; tanta energia, tantissima energia: bisogna essere atleti di sé stessi, direbbe un Nanni Moretti d’epoca. 

L’autorevolezza del degustatore, figura allo stesso tempo inesistente e indispensabile, sta tutta nel suo (energico) rigore dell’approccio, nel suo (gioioso) entusiasmo verso la ricerca perenne e nelle sue capacità interpretative. Le abilità dell’assaggiatore professionale devono essere non solo specifiche, ma anche creative, filosofiche, storiche, geografiche, geologiche, artistiche, continua continua.

Con un briciolo di suggestione poetica, mi piace considerare la degustazione un percorso che è gioco e impegno, riflessione e slancio, conoscenza e immaginazione. Come se il calice di un’assaggiatrice e di un assaggiatore fosse continuamente sospeso a mezz’aria, in bilico tra le colline e le stelle.

Sempre di più, nel mondo delle notizie telecomandante, abbiamo sempre più bisogno di degustatori che attivino la centralina dei sensi in modo libero e appassionato; che bevano per incontrarsi con il vino non per sezionarlo; che si prendano la briga di camminare ed evolvere nel ruolo di interpreti; che abbiano voglia di sfondare la prigione dei codici imposti.

Di una bottiglia occorre apprezzarne diversità e bizzarrie: chi dopo un timido approccio dice “non è il mio vino” (di solito dopo dieci secondi, forse meno) non è tagliato per questa materia così umana, così enigmatica, così mutevole, così piena di eccezioni.

Le dissonanze rendono il percorso di conoscenza del vino elettrizzante, unico. Certo non è la dissonanza in sé che rende il vino migliore, che se è buono è buono così com’è, al di là del fatto che sia proporzionato come un Apollo, che abbia le gambe lunghe e la testa piccola (e viceversa) o che su due piedi appaia obliquo e irregolare.

Ma l’amore per il contrasto deve essere nella natura di un assaggiatore, al quale può essere offerto nello stesso momento del giorno un Moscato d’Asti di accogliente dolcezza e un Marsala Vergine di “lanzichenecca” salinità; un rigido Bordeaux giovanile e un Beaujolais nel pieno del suo frutto ammiccante; un Assyrtiko di Santorini di scapigliata mineralità e uno Jasnières così tenace da apparire offensivo.

Occorre procedere a oltranza nel proprio percorso di formazione, sfidare la routine e bramare gli imprevisti; accettare di conoscere nuovi territori o nuove letture di essi; occorre dar retta alla curiosità, prendere appunti, riflettere e arrendersi all’imponderabile: un degustatore deve saper dare la caccia all’infinito.

*A DOMENICO CLERICO, SEVERINO GAROFANO, NINO PIEROPAN, STANKO RADIKON E BEPPE RINALDI, MAESTRI TRA LE NUVOLE.

* Francesco Falcone è nato il sei maggio del settantasei a Gioia del Colle. È un degustatore indipendente, divulgatore e scrittore.

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