lunedì, Febbraio 24, 2025
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LA PRIMAVERA DELLO CHAMPAGNE Di Francesco Falcone

Io adoro lo Champagne perché sono un degustatore che vuole essere sorpreso fino a farsi male. Non voglio essere ingabbiato nelle regole; non voglio fare questo mestiere nella limitazione terribile di sentire e scrivere solo di ciò che può avere senso per gli altri. Io cerco nel calice una verità inventata. E lo Champagne è il vino che più di tutti se ne frega della matematica: per cui a un certo punto due più due fa cinque oppure tre, quasi mai quattro. C’è in esso una perfezione calcolata che per qualche inghippo fortunato – nelle bottiglie più buone – va a farsi benedire, approdando laddove osano gli angeli, tra le alte vette del mistero. Quel mistero che nel vino alza le onde, scalzando la bonaccia della noia.

Ho vissuto attimi di non trascurabile felicità bevendo Champagne. Come quella volta a Carpi, eccitato per un sorriso che da allora mi mancherà come l’ossigeno e per una prodigiosa versione di Cristal 1996: millesimo ineguagliabile, nel bene e nel male. Come il primo respiro – appena versato nel calice – del Clos d’Ambonnay 1998, un’iradiddio di spezie orientali rifinite di chiaroscuri gotici, mescolate a tenere dolcezze ossidative e a suoi occhi malinconici, identici al mare d’inverno. Come lo struggente Dom Pérignon 1966 incontrato per puro caso a Roma, archetipo indelebile della fragilità che si trasforma in tenacia, e del liquido che diventa poesia.

Lo Champagne è un vino eccezionale da tutti i punti di vista: per origine geografica, per vinificazione, per diffusione, per nomea, per costanza nel prezzo, per modalità di consumo, talvolta per qualità (Samuel Cogliati). Ma è soprattutto eccezionale la superba attrazione che esso esercita su ogni tipo di bevitore: dall’amatore più meticoloso al consumatore più frettoloso. È l’unico vino al mondo che può essere scelto sia per ragioni simboliche, sia per rivendicare il proprio rango sociale, sia per enormi motivazioni qualitative (le uniche a cui io mi sia da sempre interessato).

So bene che si producono tanti Champagne insipidi e ciechi alla bellezza; ma si fa presto a dimenticarli non appena se ne intercetti una buona bottiglia: ne basta una di onesta caratura, non per forza molto costosa, da stappare in qualsiasi momento della giornata. Lo Champagne non è mai un vino complicato: io lo paragono a un pozzo artesiano, la cui profondità è sempre effluente e zampillante, mai sommersa.

Mi piace dello Champagne l’essere vino simultaneo, riunendo in sé il passato, il presente e il futuro. Il passato è nel suo brio dolcesapido: i vini sono sempre stati un po’ amabili e un po’ mossi, all’alba dell’enologia (e lo Champagne lo è ancora oggi, in qualche misura). Il presente è nel piacere che dona il suo sorso, un piacere ecumenico, senza alcun confine tra chi beve per piacere e chi lo fa per conoscenza. Il futuro è nella sua superba capacità di giovarsi del tempo, anche in virtù di tanti elementi che lo difendono dall’invecchiamento.  

Lo Champagne è diverso dagli altri vini per la sua vocazione orchestrale, laddove l’assemblaggio (di uve, luoghi, vendemmie) vale ben più della purezza; laddove l’identità si forma attraverso l’integrazione; laddove le tessere del suo puzzle sono mezzo – e non fine – di una personalità creatasi nei secoli e che negli ultimi decenni va sempre più modulandosi in direzione della varietà (di colori, di stili, di ipotesi territoriali).

Dell’importanza dell’immaginazione nel racconto del vino ne ho parlato e scritto più volte (il tema mi è caro): un assaggiatore senza immaginazione è scolastico, puerile, noioso, autoreferenziale. Senza immaginazione si copia, invece con il suo aiuto chi degusta inventa una lingua nuova, personale, che prova a intercettare le differenze e a metterle in relazione con il mondo. E lo Champagne è in tal senso linfa dell’immaginazione, liquido che possiede la capacità di esaltare il rapporto tra sete fisica e sete spirituale. I motivi – per quanto mi riguarda –  sono tanti, alcuni personali e istintivi, altri ragionati: l’apparente delicatezza che si trasforma in tenacia e incisività; la trasparenza che lascia campo aperto alla mineralità; la vitalità quale sinonimo di energia e di luminosità (ancora prima che di freschezza); la longevità che esalta il valore della trasformazione sulla conservazione. E via così toccando altre qualità importanti in ogni vino di valore: lo slancio, il carisma, la capacità evocativa, l’imprevedibilità.

Più prevedibile è invece la Champagne in senso orografico, essendo una terra dritta, aperta, di pochi saliscendi e di pochi tornanti. E anche la sua denominazione non si presta a letture raffinate: è quella e basta, senza eccezioni. E così si ha la sensazione (sbagliata) di stare sempre nello stesso posto. Tocca dunque al vino marcare le differenze: non alla toponomastica, non alla letteratura, non all’aneddotica. È il vino che dirimere e classifica: una situazione ideale per me che di vino vivo e muoio.

Spogliandomi dei panni dell’assaggiatore professionale, ammetto che il bello di bere Champagne è che al secondo calice sembra di stare nel cielo con le nuvole. Al quarto c’è una totale depurazione delle proprie sofferenze. Al sesto non vedi l’ora di fare l’amore. E intanto la bottiglia è finita. Così tutto si consuma in una salutare questione di sensi, in un’illusoria inclinazione alla leggerezza, in una forma di liberazione dalla dittatura della paura in cui oggi viviamo.

Perfino gli assaggiatori più sorvegliati, quando assaggiano Champagne, devono mettersi l’anima in pace, accettando che niente in esso è sotto controllo, che tutti gli elementi sono in continuo movimento: non è un caso che i degustatori di Champagne siano spesso degli specialisti (ovvero assaggiano solo Champagne o giù di lì). Gli specialisti sanno che per entrare in complicità col liquido occorre rassegnarsi al suo carisma: è lo Champagne a prendere il controllo della situazione, attraversandoti con quel ritmo implacabile, a tratti irriverente: e tu lì, quasi inerme. Una sensazione che non capita mai bevendo altri vini, con i quali riemerge invece il degustatore leader, soldato in missione alla ricerca di analogie, comparazioni e classifiche. Forse dipende dal fatto che non si ha tempo di riflettere, quando di mezzo c’è la parola Champagne: è tutto un fatto di pancia (e di gola).

Una pancia però leggera: nello Champagne non affonda mai nulla; la zavorra degli estratti si disintegra, sfida la gravità e vola in direzione della leggerezza. Una leggerezza calviniana, che al meglio diventa leggiadria (quando fa capolino la grazia) e dissimula ogni strato di complessità e di sapore attraverso una disposizione alla gioia e al gioco.

Il merito di quella leggerezza non è solo dei due milioni di bollicine presenti in un calice. C’è molto di più e molto di meno, in quanto a caratterizzare lo Champagne non è affatto il diossido di carbonio disciolto nel liquido, ma una miracolosa sottrazione del peso (peso che pure esiste, in termini di densità e di sapori) e insieme una circolare armonia degli elementi che emulsionano una pozione di magica vibrazione. E di questa magia – non della tecnica, non del dettaglio, non dell’ispirazione, non del talento, ma della magia – sono pressoché privi tutti gli altri Metodo Classico del pianeta.

La Champagne è un grande vigneto con dei paesi in mezzo e il vuoto intorno. Per capire quella terra non bisogna capire di vino, ma di assenze. E io sono il più grande esperto di assenze di tutto il pianeta. Capire le assenze significa imparare a vedere l’universo perfino in una singola bolla: un universo con gli occhi grandi e neri, e il sorriso di perenne primavera.

Del resto la primavera è la stagione dello Champagne, per almeno tre ragioni. Perché la sua bottiglia non si stappa, si sboccia; perché rinasce a ogni sboccatura; perché è inebriante, instabile, capriccioso, imprevedibile.

Proprio come l’adolescenza, la nostra primavera biologica.

Francesco Falcone

Degustatore, divulgatore e scrittore indipendente.

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