Ho conosciuto Beppe Rinaldi nel maggio del 2004. Trascorsi con lui un intero pomeriggio, lo ascoltai per ore, bevemmo parecchi vini, mi parlò di colleghi da conoscere, da Bartolo Mascarello a Teobaldo Cappellano, da Barale a Roagna a di altri che dimentico, e mi concesse l’assaggio del suo Barolo Chinato “carbonaro”, fatto solo per consumo domestico, quello sì indimenticabile.
Fu per me un battesimo speciale, poiché per la prima volta un produttore di vino non mi parlava solo di vino e del suo vino, ma di tante altre cose, forse troppe cose, in un caos vitale e stordente, come nei migliori film di Ozpetek. Entrò dentro la sua amata storia locale, in particolare di Tancredi Falletti e di Giulia Vitturnia Colbert, dicendomi cose note e aneddoti minori, col ritmo e i tempi del perfetto narratore. Mi chiese di cosa avrei voluto davvero occuparmi da grande: mi presi una pausa per rifletterci e credo di non avere ancora smesso di farlo.
Il vino per Beppe rappresentava il pretesto per raccontare i luoghi e le vicende per cui quei luoghi sono noti; il vino si faceva strumento propulsore di cultura, non solo di commercio e di turismo; il vino era mezzo per andare in moto, per fare merenda con gli amici, per collezionare elfi e lambrette, per leggere poesie persiane; il vino gli serviva per vivere, respirare, fumare, sorridere, amare, criticare, discutere, incazzarsi.
In seguito ho incontrato altri produttori capaci di volare così in alto, ma a quei tempi, ai tempi della mia formazione, Beppe mi pareva inarrivabile, un’aquila che ondeggiava nel cielo di Langa, col suo naso aquilino (appunto) e le ali della sua intelligenza.
Beppe fu così carismatico e così diverso da tutti gli altri, da ricordarlo oggi come un gigante, un drago, una figura mitologica. Talmente libero e cazzuto che io ogni volta faticavo a confrontarmi con lui in modo sereno, faticavo ad avere con lui un rapporto paritario. Ed è stato così, sempre.
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Il bello di Beppe è che non sembrava nemmeno sfiorato dal successo clamoroso dei suoi vini: lui e la sua famiglia avrebbero potuto arricchirsi sul serio, ma non l’hanno fatto. E ancora oggi Marta e Carlotta non tradiscono le indicazioni del padre. Beppe ostentava un’indifferenza sovrana verso il Barolo della speculazione, degli opportunismi, della crescita a tutti i costi. Ed era critico nei confronti delle vigne laddove sarebbe stato più opportuno lasciarvi boschi, del Nebbiolo che prende il posto del Dolcetto, delle cantine moderne che prendono il sopravvento sulle cantine fatte con i materiali autoctoni, come in Borgogna ad esempio.
Beppe detestava la meta come fine ultimo (la meta degli affari, del mercato, dei volumi). Per Beppe era il viaggio a valere, possibilmente in moto, meglio ancora con qualche sosta ristoratrice e un buon Toscano da sfumacchiare con gli amici giusti.
Beppe era schivo, ma tutt’altro che inaccessibile: con i modi opportuni e rispettando i suoi tempi, che certo non erano i tempi di oggi, era possibile entrare nel suo mondo e conoscerlo, in qualche modo.
Beppe possedeva occhi, orecchie, naso, lingua e abbondante materia grigia per distinguere tutte le forme della sua Langa, per vivere la sua terra con intensità e passione, per partecipare alla vita (la vita di uomo, di padre, di vignaiolo) nella sua totalità, solo che lo faceva a suo modo, nel suo ruvido maglione di lana e nella sua sciarpona avvolta fino agli occhi.
Beppe non era un produttore contemporaneo. Era anzi perfettamente agli antipodi del produttore che oggi sbriciola la sua esistenza tra un aereo e l’altro, tra un importatore e un distributore, tra Facebook e Instagram, aggredendo il mondo senza sosta. Beppe era dall’altra parte: il suo mondo si condensava nella porzione di suolo e di cielo che occupava la sua esistenza: in questo era come la vite, in comunione totale con il suo ambiente. Ed era, va detto, un viticoltore assai capace.
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In tal senso, nel repertorio peraltro ricchissimo del vino di Langa, la figura di Beppe Rinaldi è un’eccezione, sotto molti aspetti. Più che un esploratore o un innovatore o un produttore visionario rappresentava in modo solenne il custode della sua Langa: dalla Langa del Risorgimento storico a quella del Rinascimento enologico, benché Beppe appartenesse senza riserve alla tradizione più ortodossa del Barolo. Più che il bernoccolo per il vino buono desiderava il vino che non fosse solo vino, ma che fosse ambasciatore delle sue origini: per Beppe un calice del suo Barolo era catalizzatore di storie, di terre e di persone; era il carburante per viaggiare con le viscere e con la memoria; era il compagno ideale per vagare e divagare, senza sosta. Più che la passione per la mondanità, Beppe aveva a cuore i suoi amici: tanti erano quelli presunti e pochi quelli veri, con alcuni dei quali discuteva di mucche. E il vino, nel mentre, lo beveva.
Più che parlare di tecnica e di ricette enologiche, Beppe prediligeva dialogare di faccende umane, di ogni faccenda possibile, e spesso in modo critico, senza mai celare la propria idea delle cose. Era anche un gran lavoratore, lavorava tanto, senza però smettere di pensare, pensava tanto: e così, mescolando il fare e il pensare, la sua attività di vignaiolo si è trasformata in qualcosa di molto prezioso per la Langa, a cui Beppe non solo apparteneva, ma a essa si fondeva.
Nella Grecia antica, quando due persone che avevano qualcosa in comune (una proprietà, un legame di parentela, un patto…) si separavano e si allontanavano, per mantenerne la memoria o come prova di alleanza, utilizzavano un coccio da spezzare in due parti, così che ciascuno potesse conservarne una. Un giorno i loro discendenti, accostando i due frammenti e facendoli combaciare, grazie all’esatta coincidenza dei lati spezzati, avrebbero potuto riconoscersi e dimostrare la contitolarità del bene che i progenitori avevano in comune. Le due parti spezzate, una volta riunite formano il simbolo. Il simbolo è dunque ciò che, appena ricomposto, congiunge due persone, due spazi, due mondi, due cose che insieme manifestano un’unità, un’integrità che da sole non possono esprimere. Simbolo viene dal greco syn (ovvero “con”) + ballo (da bellein, ovvero “porre”) e perciò la parola “simbolo” indica ciò che è messo insieme, unito, ricomposto. Sono un simbolo le icone sacre, perché uniscono due mondi, quello visibile e quello invisibile; è simbolo l’eucarestia, che affianca la carne allo spirito; è un simbolo l’abbraccio, che lega due corpi umani facendone tutt’uno; è simbolo la finestra, che attraverso la sua luce mette in comunicazione due spazi, tra interno ed esterno; è simbolo il vino, che raccoglie il cielo e la terra e li rende liquidi. Ora, se la parola “simbolo” significa ricongiungere, riunire, ricomporre, allora i Rinaldi (la famiglia, l’azienda, i vini) sono simbolo di Langa, in grado fondere due epoche tra loro distanti e che, grazie ai Rinaldi, appaiono perfettamente combacianti: la seconda metà del Novecento con la contemporaneità.
Da Battista e Marta e Carlotta, il legame è saldo, e ciò che appare spezzato è in realtà unito, con i lati delle due epoche perfettamente combacianti. Lo dimostrano le dimensioni delle vigne, rimaste intatte; lo stile dei vini, intatto; l’onesta, la dignità, il rigore, la serietà, intatti. In questo senso, la tradizione della famiglia Rinaldi, oggi di Marta e Carlotta, ieri di Beppe, l’altro ieri di Battista, va letta come trasmissione, da una generazione all’altra, di operazioni, di modi, di saperi e di sapori. Facendo della loro esperienza, di Battista guardando Giuseppe, di Beppe guardando Battista, di Marta e Carlotta guardando Beppe, una sorta di perpetuo contagio.
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I vini dei Rinaldi sono buonissimi, veri fino in fondo. Sono buonissimi anche il vinoso Dolcetto e l’acidissima Barbera, l’arcigna Freisa e il simpatico Ruché, per dire. Buonissimi, ma non solo. Onesti anche. Di quei vini di cui ti fidi ciecamente al punto che ciascuno di noi, ne sono certo, scommetterebbe sulla loro autenticità e addirittura ci metterebbe la mano sul fuoco senza alcun timore di bruciarsela. Onesti, ma non solo. Puri, anche. Sono vini puri, sono vini Parsifal, sono vini sulla cui trasparenza non si può discutere mai. Ci saranno vini più ricchi e più universali, ma i vini di Rinaldi sono, per quanto mi riguarda, tra i pochi ammessi alla vista del Santo Graal. Puri, ma non solo. Naturali, anche. Naturali nel senso che si esprimono con naturalezza e si bevono con naturalezza. Perfino i due Barolo, anche nei millesimi importanti, riescono a dissimulare la loro profondità attraverso una fusione mirabile di tutti gli elementi. E sono anche vini fluidi, dunque energici e dinamici. E sono vini saporiti, segno che in ogni fase della produzione, dalla potatura invernale a quella primaverile, dalla gestione del verde a quella del frutto, dalla raccolta delle uve alla vinificazione, dalla maturazione all’imbottigliamento all’affinamento, ogni passaggio è stato rispettato con rigore, utilizzando la tecnologia con parsimonia.
I Barolo di Beppe Rinaldi vanno iscritti senza alcuna riserva ai canoni della tradizione. Aiutato ormai da tempo dalle due figlie, Carlotta e Marta, Beppe è sempre stato un convinto sostenitore del Barolo tradizionale: “Io non faccio vino naturale, faccio semplicemente il vino come lo faceva mio padre e prima di lui, mio nonno. Sono gli altri che hanno cambiato”.
Si tratta di Barolo che se ne fregano della superficie e puntano tutto sulla profondità, sulla prospettiva, sul carisma. Si tratta di Barolo che rappresentano senza alcun escamotage la loro provenienza e la loro annata, risultando da un anno all’altro anche sensibilmente differenti, poiché differenti sono tutte le vendemmie, anche quelle all’apparenza più simili. Sono Barolo eterei, nel senso che sono limpidissimi, quasi immacolati nella loro aderenza al terroir; e sono Barolo volatili, nel senso che hanno tutto per raggiungere le più alte vette di complessità.
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L’azienda oggi di Marta e Carlotta Rinaldi fu fondata nel 1890 dal bisnonno Giuseppe Rinaldi, che morì nel 1947, lasciando a nonno Battista, classe 1918, il timone aziendale.
I Rinaldi, originari di Diano d’Alba, nel 1870 acquistarono insieme alla famiglia Barale la Cascina ‘l Palas da un fattore dei Falletti, tale Boschis, il cui nome fu poi affiancato a una delle porzioni MGA della collina dei Cannubi (Cannubi-Boschis).
Dopo mezzo secolo, nel 1925, i Rinaldi si trasferirono nella sede attuale, in via Monforte 2, lungo la strada che congiunge appunto Barolo a Monforte d’Alba.
Battista, detto Gibì ma anche Colonnello, soprannome con cui lo gratificavano gli amici alpini, pare fosse un uomo di carattere serio, burbero, a volte severo, cocciuto, nemico dei compromessi. Fu enologo diplomato alla prestigiosa scuola di Alba e fin dalla fine degli anni Quaranta del Novecento vinificava le uve di 8 ettari di vigne pregiatissime, nelle Brunate, alla Ravera e a Le Coste. Più recente è invece la vigna di Cannubi-San Lorenzo, acquistata nel 1985. La gestione aziendale è rimasta nelle mani di Battista fino alla sua morte, dunque fino al 1992: una volta in Langa funzionava così, solo un uomo poteva essere a capo dell’azienda di famiglia.
Il figlio di Battista, Beppe Rinaldi, nacque a Barolo sotto il segno della Vergine il 17 settembre 1948. Del suo segno possedeva la serietà, la razionalità e lo spirito critico, nonché una certa tendenza all’ossessione. Beppe fu licenziato dalla scuola di Enologica di Alba nel 1969, a 21 anni, preside e professore della sua formazione fu Pinin Dall’Olio, colto, laico, carismatico e anche munito di nobile piglio, ben stemperato dall’amore per Bacco.
Dopo gli studi superiori, Beppe frequentò il Dipartimento di Scienze Veterinarie a Grugliasco, appassionandosi alle mucche, cui dedicò molto della sua professione, senza tuttavia rinunciare a dare una mano in cantina. E alla morte di papà Battista, nel 1992, Beppe divenne il nuovo titolare dell’azienda agricola di famiglia. Sostituire Battista, figura di enorme personalità, tra i grandi patriarchi del Barolo, nonché sindaco di Barolo durante gli anni Settanta del Novecento, non fu semplice per Beppe, tanto che io stesso ricordo che ancora agli inizi degli anni 2000 in molti lo consideravano dotato di minor talento.
Naturalmente si trattò di giudizi frettolosi, condizionati dai soliti luoghi comuni di cui il mondo (non solo del vino) è zavorrato. In ogni caso Beppe riuscì a imporsi tra gli osservatori, ma senza cambiare quasi nulla di quanto ebbe imparato fino ad allora: la tradizione fu rispettata e lui fu custode eccellente del tesoro di famiglia.
Rispetto alla gestione paterna piantò un po’ di Freisa vicino alla cantina (in zona Le Coste, nella parte bassa della MGA), mise a dimora un po’ di Ruche’ alla Ravera, e conservò sempre alla Ravera le uve di Dolcetto e Barbera. Ancora oggi, negli altri Cru aziendali (Brunate, Cannubi-San Lorenzo e la parte nobile de Le Coste) si coltiva solo Nebbiolo da Barolo.
Sotto la sua responsabilità, Beppe decise di dichiarare i nomi delle vigne in etichetta. Se suo papà Battista produceva un Barolo “classico” (con una miscela di Cru) e un Barolo Brunate Riserva (maturato 4 anni in legno e due anni in speciali bottiglioni di vetro da due litri prima di essere posto in commercio), Beppe creò invece due etichette “paritarie”: Brunate-Le Coste e Cannubi San Lorenzo-Ravera. Etichette che furono ulteriormente modificate (a norma di legge) a partire dalla vendemmia 2010, quando nacquero il Barolo Brunate e il Barolo Tre Tine.
Oggi l’azienda Giuseppe Rinaldi è seguita da Marta, del 1985, e da Carlotta, del 1988. Dietro di loro c’è mamma Annalisa, silenziosa e dolce come sempre. La storia continua, senza alcun cambiamento strategico, ma con un vuoto incolmabile, poiché Beppe è morto dopo una malattia senza scampo il 2 settembre del 2018.
Aveva settant’anni e davvero ci mancherà.
Francesco Falcone
Degustatore, divulgatore e scrittore indipendente.