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BOLGHERI, DI AMORE E DI MARE, DI PINI E DI VINI, DI STORIE E DI MITI. Di Francesco Falcone

La storia del vino è legata agli uomini. Hai voglia a raccontare le magie di un luogo, le straordinarie peculiarità di un suolo, la classe di un vitigno se poi a questi elementi, certamente importanti, manca una guida altrettanto ricca di talento. Si tratterebbe, come non così di rado avviene, di potenzialità non valorizzate appieno o di grande occasione mancata: perché la vera forza di un’azienda e di una denominazione sta tutta nelle mani, nella testa e nel cuore degli esseri umani. Solo produttori di grandi virtù, onesti, curiosi, competenti, ambiziosi e il più possibile coraggiosi, permettono di chiudere il cerchio e di dare al territorio un valore complessivo superiore alla somma dei suoi addendi. Non solo: ci vuole poi un gruppo di persone lungimiranti, in grado di dialogare tra loro e di mettersi dalla parte del futuro, per riuscire a creare i presupposti perché una zona sia riconosciuta come un organismo vitale, e non come un aggregato incoerente, privo di forma.

Prendiamo Bolgheri. Al netto delle considerazioni personali sugli esiti (e sugli approdi) del suo successo e sul valore oggettivo dei suoi luoghi, è indiscutibile che quel pezzo d’Italia posizionato lungo l’Aurelia, a sud della provincia di Livorno, sia tra le zone del vinotoscano di maggior prestigio, nonostante una storia tutto sommato recente. Non staremo a dire che fino al 1993 il disciplinare locale prevedeva solo le tipologie Bianco e Rosato, e che alla fine del decennio precedente le aziende attive sul territorio erano meno di una decina, non una di più.

Nonostante la storica presenza di Tenuta San Guido, celebre già alla fine degli anni Settanta e attiva commercialmente dalla fine dei Sessanta, e benché nel decennio successivo altri marchi di solido pedigree nacquero sulla scia del successo internazionale del vino Sassicaia (Ornellaia, Grattamacco, Guado al Tasso, poi Le Macchiole), a Bolgheri alla fine degli anni Novanta il grano e la frutta primeggiavano sulla vite. Del resto i dati ce ne danno conferma: nel 1998 gli ettari coltivati a vigna erano appena180.

Insomma per anni Bolgheri è stata Terra di pallidi liquidi salmastri e di un sangiovese piuttosto dimesso, incapace di tenere testa alle aree toscane della Toscana Centrale (Chianti Classico, Montalcino, Montepulciano), mentre da tre decenni è considerata, in modo inequivocabile, terra di rossi dalla spiccata inclinazione bordolese, più o meno buoni, più o meno credibili, ma comunque lontanissimi da quanto si produceva un tempo.

Un risultato ottenuto attraverso l’abnegazione, la lucidità e l’intelligenza degli uomini, su questo non si discute: da un lato le famiglie nobili, con enormi tenute e importanti capacità finanziarie, dall’altro i piccoli produttori, con pochi mezzi ma tanta voglia di fare e di emergere. Due realtà che invece di contrapporsi hanno saputo coesistere, per creare un progetto lungimirante e attraente agli occhi della critica e dei mercati internazionali, ribaltando le gerarchie del vino toscano.

La mia generazione di assaggiatori ha probabilmente esaurito ogni nuova esperienza possibile. Ha bevuto ogni vino, visitato ogni luogo, letto ogni libro, incontrato ogni produttore, digerito ogni tecnica, interpretato e smontato ogni idea intorno al liquido odoroso. Quello che tuttavia ci manca e ci mancherà per sempre, a meno che un genio assoluto non realizzi sul serio la macchina del tempo, è poter tornare fisicamente a quando tutto è partito; è vedere il mondo del grande vino italiano in embrione, a cavallo di quella pacifica rivoluzione produttiva e stilistica iniziata alla fine degli anni Settanta del Novecento (con accelerazioni decisive dopo lo scandalo del vino al metanolo, nel 1986). Ecco, viaggiare indietro nel tempo, attraversando quel fermento primigenio, quelle fiamme di passione – ma ben prima dell’esplosione vera e propria, del successo vinicolo diffuso, della turboenologia e del Big Bang mediatico di fine anni Novanta – sarebbe una figata.

Darei un braccio pur di potermi catapultare in quegli anni in cui tutto nasceva e poco si sapeva, in cui nulla o quasi era stato valorizzato, saccheggiato, usato. Darei un braccio per tornare a quando era l’entusiasmo e non la consapevolezza il sentimento più diffuso, le intuizioni rivelatrici e non i protocolli più condivisi le chiavi di lettura per riconoscere un terroir e un vino di valore.

Ecco, se un genio mai esistesse e accettasse l’ardito baratto (il mio arto per un salto temporale di circa quarant’anni), allora mi trasferirei certamente a Bolgheri, perché il vino italiano che segna il taglio netto con il passato – e l’inizio del rinnovamento – nasce proprio in quel lacerto di costa toscana cantato dal Carducci. Lì, Tenuta San Guido nella seconda metà degli anni ’70 e un manipolo di altre aziende nate nel decennio successivo – Ornellaia, Grattamacco, Guado al Tasso, Michele Satta e dopo qualche anno, Le Macchiole – attirarono l’attenzione della stampa e degli specialisti sulla nostra enologia (quando il vino di qualità quasi non esisteva) con bottiglie concepite fregandosene del passato ma guardando avanti, molto avanti. Bottiglie che contenevano liquidi giovanili, croccanti, polposi, curati, ottenuti da vitigni francesi alla moda di Bordeaux, slegati dalla tradizione e dalle abitudini locali: una specie di apparizione del colore dopo una vita in bianco e nero, come vedere il cielo dopo una vita in galleria.

E si sa che la luce di Bolgheri è proverbiale. Quella del tardo pomeriggio, che altrove perderebbe in intensità e che lì, grazie alla decisiva azione di riflessione del vicinissimo Mar Tirreno, sprizza luminosità fino al crepuscolo, alternandosi all’azzurro del mare, al verde della pineta costiera, al rosso della terra ferrosa. Una luminosità che è gioia per la vite, per i grappoli e per noi bevitori, giacché la si percepisce sempre, in ogni vino rosso locale, perfino in quelli più strutturati e profondi, anche in quelli meno felici. Che passi da un pertugio o da un’ampia finestra, a seconda dello stile di ciascuna azienda, delle caratteristiche proprie di una zona e del timbro della singola annata, la luminosità è una costante a Bolgheri, e scongiura la cupezza che molti rossi di ispirazione bordolese esprimono in altri luoghi della Toscana.

Non è finita. Perché ci sono le brezze, frequenti, costanti, tangibili in qualsiasi periodo dell’anno, alimentate da un virtuoso movimento di correnti d’aria di cui sono responsabili il mare a ovest e il polmone verde delle Colline Metallifere a est, una catena antiappenninca di media altitudine (parallela alla costa) che in inverno protegge e in estate rinfranca l’intero vigneto bolgherese, fungendo altresì da spartiacque fisico e climatico con la limitrofa (e più continentale) zona della Val di Cornia. In questo contesto solare, provenzale, prettamente mediterraneo nascono i più noti <<Bordeaux italiani>>, i cui portabandiera, nel mondo, sono principalmente due: Sassicaia e Ornellaia. Il primo in perfetto stile europeo, classicissimo; il secondo costruito per incantare i mercanti internazionali. Alle loro spalle però c’è di cui gioire: i vini di Le Macchiole, di Fabio Motta, de I Luoghi, di Enrico Santini, di Argentiera, di Grattamacco meritano infatti da anni altrettanta considerazione.

Sassicaia, vero e proprio mito italico celebre ovunque nel pianeta, è la referenza di punta della Tenuta San Guido, fondata nel 1942 da Mario Incisa della Rocchetta, un visionario e per alcuni addirittura un genio nato a Roma nel 1889 da famiglia monferrina. Il quale studiò alla facoltà di agraria dell’università di Pisa, conobbe Clarice della Gerardesca, discendente di uno dei casati più antichi della Toscana e a Bolgheri mise radici. Al marchese Mario Incisa della Rocchetta si deve gran parte della conservazione dell’ambiente e dello sviluppo dell’Alta Maremma, in quella fascia di territorio che parte poco a sud di Bibbona e arriva fino ai confini della Val di Cornia. Un’opera scaturita dall’amore che il marchese aveva nei confronti del territorio: tanto a Bolgheri – complice la cospicua dote della moglie Clarice: 600 ettari e una decina di poderi – realizzò nel 1959 la prima oasi faunistica privata italiana. Tra i fondatori, nonché primo presidente del WWF italiano, fu anche proprietario della scuderia Dormello Olgiata (fondata con il grande allevatore Federico Tesio), dove nacque il mitico cavallo Ribot, il più famoso galappatore di tutti i tempi. Ma a Mario si deve soprattutto l’invenzione del Sassicaia (la sassicaia è il mucchio di sassi accumulati dopo la bonifica del terreno), vino battezzato con la vendemmia 1968 (con saldo di 67 e di 69) dopo ben 26 anni di sperimentazioni. Sassicaia, che gode di una propria sottozona a partire dal 1994 e di una propria denominazione d’origine dalla vendemmia 2013 (Bolgheri Sassicaia) è ancora una creatura della famiglia Incisa della Rocchetta, di Nicolò e di sua figlia Priscilla, con la collaborazione del bravissimo Carlo Paoli.

 Ornellaia è invece il vino bandiera della tenuta eponima creata da Ludovico Antinori nel 1981, il quale dopo essersi staccato dall’azienda di famiglia (la Antinori di Firenze) e grazie alla decisiva complicità enologica di Andrè Tchelicheff (sciamano del “nuovo” vino californiano a cui fu affidata la consulenza del progetto iniziale), fu determinato a rendere Ornellaia (il cui primo millesimo è il 1985) e il più elitario Masseto (all’esordio nel 1986) vini imprescindibili per buona parte dei mercati del mondo, riuscendo nell’impresa con enorme successo. Successo consolidato dai Marchesi Frescobaldi di Firenze, che acquisirono la tenuta nel 2005.

Il resto è storia attuale. Una settantina di aziende attive sul territorio, poco meno di 1400 ettari vitati complessivi, di cui il 37% appannaggio del Cabernet Sauvignon, seguito dal Merlot (23% della superficie totale), dal Cabernet Franc (12%), dalla Syrah e dal Petit Verdot (entrambi attorno al 6,5%). L’offerta, ormai ampia e articolata, è fatta di luci e di ombre, di vini grandi (pochi) e di vini grossi (tanti), di vini di terroir (pochi) e di vini di stile (tanti), di vini originali (pochi) e di vini prevedibili (tanti). Bisogna dunque saper scegliere, come del resto ovunque nel mondo, dalla Borgogna alla Langa, da Napa alla Rioja: non c’è vino buono senza bevitori curiosi e intelligenti.

Bolgheri in pillole.

Bolgheri è sinonimo di giaciture dolci, tra pianura e pedecollina, più episodica è invece la viticoltura in collina. I vigneti, a rittochino, prevedono un sistema di allevamento a controspalliera con potature a cordone speronato (assai menon diffuso è il Guyot Semplice), con densità di ceppi per ettaro che oscillano tra 5000 e 8000. L’epoca di maturazione è precoce per il Merlot (fine Agosto, prima settimana di Settembre), intermedia per il Cabernet Franc (seconda decade di Settembre), tardiva per il Cabernet Sauvignon (fine Settembre/prima decade di Ottobre). I terreni alternano argille e sabbie, con strati limosi più cospicui in pianura e presenza di sasso più o meno sensibile a seconda dei luoghi. In cantina si lavora in modo ortodosso, con vinificazioni in acciaio (più raramente in tini di cemento e legno), macerazioni di due/tre settimane, svinature e travasi in barrique bordolesi, maturazioni di 12/16 mesi. Seguono filtrazioni blande e chiarifiche all’occorrenza. I prezzi delle bottiglie in enoteca variano dai 20 euro di media delle referenze più semplici alle diverse centinaia di euro delle etichette più illustri.

 Francesco Falcone

Degustatore, divulgatore e scrittore indipendente. 

fra.falcone2003@libero.it

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