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SOGNO ARTIGIANO Di Francesco Falcone

Si deve porre un’obiezione alla logica industriale del vino, benché la viticoltura mondiale sia da tempo orientata in quella direzione. Si deve revocare in forse la serialità enologica con cui si confezionano milioni e milioni di bottiglie, benché sarebbe disonesto nascondere che la qualità formale dei vini – ovunque nel mondo – è cresciuta sensibilmente negli ultimi venti anni.

Tutto però non si tiene. Il vino non è solo frutto e fiori, tannini e acidità, polpa e definizione. Il vino è anche un modo di intendere la vita, da parte di chi lo fa e di chi lo beve. Un passo dopo l’altro in direzione della conoscenza immateriale: è respiro, tempo, misura.

Il primo segno di discontinuità rispetto all’inerzia del mondo è scegliere etichette identitarie, concepite percorrendo la via lattea dell’artigianalità, in campagna come in cantina.

Ripeto spesso a chi mi segue che non è triste il sopravvento del vino industriale, del Tavernello che nel quotidiano sostituisce il vino contadino, è triste pensare che non vi siano contromisure per arginarlo.

Ciò che invoca l’appassionato di terroir, così come il bevitore di storie, è un’etica della campagna, della viticoltura, dei trattamenti, delle fermentazioni, degli affinamenti, degli imbottigliamenti, del mercato. Il vino come poesia delle radici, lirica della geologia, inno alle minuzie camuffate, da scoprire piano piano.

La speranza è che ogni scelta enoviticola vada in direzione della custodia dei luoghi, della salvaguardia delle tradizioni, delle più alte visioni. Proprio la “visione” è a mio avviso uno dei motori del cambiamento, perché un’idea nobile del vino – da parte dei produttori, della critica, dei consumatori – è indispensabile per accendere il futuro e per contrastare la logica della ricetta apolide, del protocollo seriale, della prospettiva mercantile.

La mia speranza di osservatore e di appassionato è che in futuro si arrivi a comprendere che l’industria e il vino buono sono davvero agli antipodi, così come sono lontani la scienza e la complessità. Spero in un tempo senza le smanie dimostrative della perfezione e auspico un vino piccolo che diventa grande per le sue diversità silenziose.

Un vino buono ha davvero poco a che vedere con la perfezione genetica e microbiologica di un’uva e di un mosto. Un vino buono deve saper trattenere almeno un breve soffio di vento del suo luogo d’origine in quella determinata vendemmia; e di questo non se ne ha traccia in un laboratorio.

Il vino industriale lo è nella concezione non nei numeri, è prodotto ovunque e da chiunque, grandi e minuscoli produttori: non è la dimensione ma la visione dell’approdo finale che traccia la differenza tra un’ipotesi e l’altra di vino, tra liquido vivo o morto, tra alto o basso, tra buono o banale.

Il vino industriale è per noi amatori qualcosa che nemmeno si avvicina all’originale, è un’ipotesi approssimativa, un’eco lontana, un surrogato. Non è vino.

Solo il vino artigiano ha a che fare con uomini, donne, giovani, vecchi, sudore, confini, orizzonti, sguardi, colline, montagne, pianure, argille, calcari, sabbie, rocce, sassi, mare, vulcani, zolle, polvere, erbe, latitudini, altitudini, esposizioni, venti, sole, nuvole, neve, pioggia, macchia, viti, foglie, grappoli, legni, radici, malattie, passeggiate, sensazioni, sentimenti, ricordi, riflessioni, previsioni, silenzi, respiri, parole, amore.

Chi come noi beve vino con passione non può ignorare che attraverso il vino buono si può raggiungere una bellezza universale, che bere bene può riscattare il brutto e predisporre a un ascolto solidale di una piccola ma meravigliosa parte del mondo.

Forse è così. O forse è solo un sogno artigiano.

Francesco Falcone

Degustatore, divulgatore e scrittore indipendente.

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