[Ciò che non evolve, muore]
Per chi abbia capito in quale direzione sta portando la strada della propria vita, può risultare prezioso, prima di consegnarsi alla routine, lasciare il rettilineo dell’ovvietà e prendere una leggera deviazione su un sentiero meno battuto o addirittura non ancora esplorato. Potrebbe succedere che, di deviazione in deviazione, piegando più volte nella direzione di ciò che non è scontato, si arrivi a segnare, con la vita, un cerchio.
Ecco, quel cerchio, la cui figura rimanda a un percorso risolto, a un traguardo in qualche modo raggiunto, non è raro ottenerlo mentre si fanno percorsi laterali, inediti, perfino quando si pensa di essere finiti in una mulattiera senza via d’uscita. E che la fine sia vicina.
Invece è da quel punto lì, che spesso tutto inizia.
Da quel punto lì, ad esempio, ho capito che il vino mi appartiene, è un mio elemento. È successo proprio quando ho seriamente rischiato di cambiare lavoro, di cambiare vita. È negli anni più complicati che ho imparato a capirlo il vino, a scriverne. Scriverne con uno sguardo nuovo, più complice e meno competitivo: un occhio al calice e l’altro altrove; uno alla realtà e uno all’immaginazione sollecitata da un sapore, da un profumo, da un’atmosfera, dalla persona al mio fianco.
In questi anni di maturazione e di maturità ho capito che per parlare di vino occorre esporsi, lasciarsi andare all’emozione. Un sentimento che non si può avvertire per ogni bottiglia e in ogni luogo, ma che accade. Diomama, se accade. Del resto non è un mistero di come il vino diventi un’arma micidiale quando si porta nei pressi del cuore.
È di quei momenti che scrivo nel mio Diario: solo alcuni sorsi di quanto ingerito in questi anni, al riparo da tentazioni compilative, ma con forti impulsi sentimentali e immaginativi. Vengo a tal proposito rimproverato, anzi mi viene quasi mossa un’imputazione di reato, perché reo di porto abusivo di sogni e di immaginazione: tutto ciò è vero e mi dichiaro colpevole. E intendo essere recidivo.
Secondo Isidoro, la parola vino deriva da vis, che vuole dire forza. E la forza serve eccome, per occuparsi di vino: berne, parlarne, scriverne, viaggiare, indagare, confrontare, studiare. Studiando si impara che il vino è mescolanza, contaminazione, cultura, passione. Però che bello questo mestiere così umano.
Se è vero che il vino è così speciale oggi come nel Neolitico, è perché reclama umanità che non si può sbrigare come una semplice bevuta, non si può trattare in laboratorio, non si può limitare a brandelli di conoscenza didattica. No, non basta.
Intorno al Vino raccoglie tanti pensieri e tante parole, in modo tutt’altro che coerente: io considero la coerenza una qualità sopravvalutata.
Il volume è ispirato e dedicato all’amore della mia intera esistenza, un amore immenso e puro come acqua di roccia. Sarà in libreria a partire da gennaio per i tipi di Quinto Quarto Editore (www.quiqua.it).
Francesco Falcone