Perché in tanti ci si avvicina al vino, se non per il piacere che offre? Un piacere che, diciamolo senza ipocrisia, non può prescindere dall’alcol, parte integrante, ed auspicabilmente integrata, di un prodotto inventato dall’uomo dall’alba della civiltà.
Come se una ricerca della perturbazione sensoriale, dell’alterazione dello stato mentale, della modifica artificiosa degli schemi riconosciuti del nostro ragionare, fosse sempre stata una necessità cui sopperire con qualche “pozione magica”. Pozione che qualcuno millenni fa scoprì e tramandò fino ad oggi.
Mi piace soffermarmi a ragionare su questo e su come tutt’oggi il vino abbia la capacità di mantenere questo ruolo, cui storicamente se ne affianca però un altro, parimenti importante: quello di alimento. Il vino in passato era elemento fondamentale delle tavole, fonte di energia oltre che, come detto, mezzo per annebbiare o elevare (a seconda di quantitativi e scopi) la mente. Oggi sembra farsi avanti un nuovo ruolo per il vino, inquietante per quanto mi riguarda. L’attuale turbinio social ha connesso ormai tutto il globo, permettendo ad ognuno di noi di emettere il proprio raglio in rete. Ognuno nell’attesa di vedersi rispondere potenzialmente da chiunque, conosciuto o meno, semplicemente con lo scopo apparente di “CONDIVIDERE” una esperienza, un pensiero, un ricordo.
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Sina Mostafawy | Saatchi Art
Ma questo condividere, a ben guardare, si palesa nella maggioranza degli episodi come un succulento boccone per il proprio EGO. Il proprio IO costantemente in cerca di certezze, conforto, approvazione, perso in un mondo sempre più ampio di vedute, con orizzonti labili, futuro incerto, economie in uno stato di crisi permanente.
Viviamo una destabilizzazione sociale e culturale figlia di una globalizzazione che per quanti aspetti positivi abbia offerto, porta nel rovescio della medaglia un ricco carrello di ingiustizie, problemi sociali irrisolti o aggravati da essa, nonché la consacrazione del consumismo come religione dominante e fine ultimo del così detto “progresso”.
Ma mi fermo per non addentrarmi in analisi che ci porterebbero probabilmente a prendere la prima bottiglia di vino disponibile e attaccarci al suo collo per rievocare il fine primo del vino, ovvero l’obnubilamento della realtà così come abitualmente percepita.
Piuttosto voglio soffermarmi sul ruolo che il vino si sta cucendo addosso in questa rinnovata ottica culturale. Oggi il vino, come gli abiti, il cibo, i posti visitati, le persone conosciute, diventa cartolina, status symbol, ostentazione.
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Sina Mostafawy | Saatchi Art
Chiunque abbia un palato allenato, una vera passione per la degustazione e per il bere, difficilmente si esime dal condividere la bevuta di una etichetta rinomata, un nome di blasone, il vino che tutti celebrano o di cui tanti parlano.
In tutto questo quanto si perde di quello che si è bevuto? O meglio, alla base del mettere “nella propria vetrina” un vino, cosa c’è davvero? Si tratta di voglia di offrire agli altri una scoperta, condividendo un piacere che ci ha attraversato e risvegliato l’animo, rendendo impellente il bisogno di diffondere la buona novella, o più bassamente la ricerca di un like, di ammirazione o invidia? O si tratta solo di cercare un feedback da qualcuno, per sentirci meno soli in questo mondo che più ci connette e più sembra isolarci?
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Sina Mostafawy | Saatchi Art
E allora io mi fermo, scendo in cantina e scelgo il vino ascoltandomi, cercando di capire dentro me cosa davvero vorrei per questa sera, cosa il mio intuito, unito a quel briciolo di esperienza, mi suggeriscono di aprire per accompagnare ciò che andrò a mangiare.
E ad ogni calice che sottopongo al naso e alla prova determinante e intransigente del sorso, abbandono le armi della mente, del preconcetto, del dubbio, della paura. Ci sono alchimie quasi inconsce che difficilmente si mettono da parte, che vibrano in sottofondo quando si beve il vino di una persona che conosciamo bene, o che in un’occasione ci ha regalato cose molto al di là del semplice racconto del proprio lavoro. Quelle cose che ti fanno capire davvero perché vale la pena amare il vino ed il mondo che gli gira intorno.
Ecco, ho parlato di vibrare. Io amo la musica e la sua capacità di toccare tasti nascosti in noi proprio grazie alle vibrazioni, alle frequenze.
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E in questo riconosco un enorme gioia parallela nella degustazione (o meglio nel bere consapevole) del vino. Smettere di parlare, mettere da parte il proprio io, le proprie aspettative, le nozioni, i sofismi, tacere una buona volta (in questa realtà roboante di opinioni non richieste), e ascoltare.
Ascoltare il vino, ascoltare noi stessi, sentire cosa il vino ci trasmette, ascoltare se la nostra pancia lo riconosce come cibo, lasciare che la mente ne riconosca la bellezza ed il piacere (o il suo contrario). Lasciare da parte l’egoismo per godere l’edonismo e nutrire lo spirito e il corpo.
Non è per tutti dite? Il vino è alla portata di tutti. I vini capaci di farci stare davvero bene sono alla portata di tutti. Cercate il vostro. E poi magari condividetelo, ma non in rete. Condividetelo con chi riconoscete sulle vostre frequenze.
E non smettete di stupirvi e farvi domande. Restate curiosi, ma sempre, sempre con antenne dritte e animo aperto. Buon vino non mente.
Matteo Carlucci