Bisogna, alle cose,
lasciare la propria quieta, indisturbata evoluzione
che viene dal loro interno
e che da niente può essere forzata o accelerata.
Tutto è: portare a compimento la gestazione – e poi dare alla luce …
Maturare come un albero
che non forza i suoi succhi
e tranquillo se ne sta nelle tempeste
di primavera, e non teme che non possa arrivare l’estate.
Eccome se arriva!
Ma arriva soltanto per chi è paziente
e vive come se davanti avesse l’eternità,
spensierato, tranquillo e aperto
Bisogna avere pazienza
verso le irresolutezze del cuore
e cercare di amare le domande stesse
come stanze chiuse a chiave e come libri
che sono scritti in una lingua che proprio non sappiamo.
Si tratta di vivere ogni cosa.
Quando si vivono le domande,
forse, piano piano, si finisce,
senza accorgersene,
col vivere dentro alle risposte
celate in un giorno che non sappiamo.
[Rainer Maria Rilke – Sulla pazienza]
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Chi non beve orange wine si priva coscientemente di un colore della vita. Tutti ogni giorno facciamo scelte che ci privano di alternative, di rischi, di nuovi incontri, nuovi punti di vista. E’ facile rifugiarsi nel consueto, nel confortevole, nel conosciuto. Ma è un atto di onestà ammettere che così facendo si perdono occasioni sconosciute e potenzialmente gratificanti. Le rivelazioni non arriveranno dalla monotonia.
Gli orange wine, in senso stretto, sono vini che racchiudono un diverso concetto di rapporto con le uve a bacca bianca. Nascono, nelle loro accezioni più autentiche, da zone vocate e da vitigni lì adattati da tempo. Sono vini che traggono dal territorio forza e sostanza. Vini ottenuti da uve completamente mature, a compimento del ciclo naturale della pianta, puntando ad avere la maturazione fenolica anche dei vinaccioli, che giocoforza parteciperanno alla vinificazione, quando tutto il corredo dell’acino resterà nei recipienti scelti per la fermentazione per svariati giorni.
Portare l’uva a maturità in maniera sana, senza scorciatoie chimiche che esulino da preparati naturali, o al più da rame e zolfo, comporta attenzione ma anche accettazione delle regole della natura. I più integerrimi vignaioli che raccolgono uve per fare orange wine mettono in conto che una parte di uve potrebbe marcire e venire scartata in raccolta, sacrificata sull’altare della maturità.
Chi sceglie di produrre un vino arancione vuole portare nel calice tutto il bagaglio che l’annata ha donato alle uve. Tutta la parte buona, almeno.
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Spesso chi produce vini macerati lo fa a partire da vigne vecchie, che proprio in virtù dell’età acquisiscono maggiore equilibrio nel produrre frutto e portarlo a maturazione. Nella realizzazione di questi vini diventa essenziale l’equilibrio in tutte le componenti in gioco: la pianta, il terreno, l’habitat della vite, il meteo.
E una volta messe le uve in fermentazione giunge l’ultimo vero tassello messo dal produttore. E’ il momento dell’attenzione vigile, del controllo continuo delle bucce, che devono restare bagnate (o eventualmente protette) per non lasciare innescare fermentazioni batteriche indesiderate, almeno finché il “cappello” di vinacce non affonda nella massa. Fondamentale assaggiare e seguire il percorso del vino, cogliendo il giusto momento in cui eliminare le bucce, ormai esauste, per fare proseguire il percorso al vino, sfecciato ma non filtrato, per non perdere le sostanze che la lunga macerazione ha fatto trasferire al liquido.
Spesso in questi vini mi capita di notare delle note olfattive che ricordano il tè, il karkadè (ibisco) ed altri infusi, e scatta naturale la connessione con la lunga macerazione, che rappresenta una sorta di lunga infusione a freddo.
All’assaggio gli orange sono vini materici, ricchi di polpa ma non necessariamente pesanti. La fibra nervosa dell’acidità, il tratto sapido spesso mutuato dai terreni, la leggera texture tannica lasciata da alcuni vitigni, uniti ad un calore integrato, restituiscono un sorso tridimensionale, pieno di contrasti e colori, come un caleidoscopio che ad ogni giro cambia forme e cromatismi.
Volendo fare una distinzione, si potrebbe parlare di bianchi macerati, quando il contatto con le bucce sia mantenuto solo pochi giorni, o effettuato solo su una parte delle uve, sempre allo scopo di ottenere una maggiore estrazione di sostanze, ma senza necessariamente il corredo “filosofico” alla base degli orange propriamente detti.
Al di là delle premesse, per provare a capirci qualcosa nel vino (se c’è qualcosa da capire o dovremmo solo goderne coscientemente?) l’unico vero modo è sempre lasciar parlare il bicchiere, riempiendolo con l’oggetto del discorso.
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E in una serata di Sommelier della Sera, organizzata sulla terrazza affacciata sull’Adriatico, in una tiepida sera di luglio, abbiamo versato e condiviso impressioni su diversi vini bianchi macerati e orange wine, con lievi divagazioni sul tema.
Vera sorpresa della serata un vino alla sua prima uscita, “Ultima 2018” di Fattoria Ca’ Rossa di Bertinoro, albana lasciata a fermentare e poi affinare con le sue bucce in una barrique nuova per 4 mesi. La cosa stupefacente è che le uve provenivano tutte da un’unica pianta di albana, ultima superstite di un impianto del 1935, oggi maritata ad una sequoia e capace di produrre dai 300 ai 400 kg circa di uva ogni anno, e di portarla anche a maturità! Dopo la raccolta le uve sono state appassite 15 giorni prima della pressatura e messa in fermentazione. Quasi 17 gradi svolti ma un sorso che si mantiene integro e compatto, non brucia in bocca ma si allarga con sapore e trama tannica morbida, note di miele, frutto giallo maturo e albicocca, finale sapido tipico, riconducibile alla roccia di spungone nella quale la pianta affonda le sue radici. Risultato sorprendente anche perché sperimentato per la prima volta dal produttore senza esperienza nè conoscenze specifiche sulla tipologia.
Restiamo in Romagna per la prima sessione di assaggi, con un’altra nuova uscita, il Trebbiano Piuttosto 2019 di Tre Monti. Dinamico, saporito, vivo di acidità e graffio tannico, ma con polpa (14.5°), secco, con note di tè alla pesca e resine. Un modo certamente ben riuscito di dare una dimensione di interesse al trebbiano romagnolo.
Sempre della cantina Tre Monti il Vitalba 2016, albana delle colline imolesi macerato in anfora georgiana, da annata fresca. Questa versione, che avevo assaggiato già in passato, sembra ora in fase di chiusura, ha perso frutto e fiore per virare su spezie, ma il sorso risulta un po’ svuotato, fresco e asciutto, ma mancante del guizzo che in gioventù invece lo rendeva molto invitante. Possibile anche la bottiglia non troppo performante.
Sempre albana, ma dalle “alture” di Valpiana, frazione appenninica del comune di Brisighella, dove Paolo e Katia Babini (Vigne dei Boschi) coltivano le loro viti sopra i 400 metri, su terreni marnoso-arenacei. Il Persefone 2015 è la loro versione macerata in anfora georgiana, interrata, nella quale però viene lasciata in infusione solo il 20% delle bucce. Il risultato è spiazzante perché l’albana rivela la sua matrice montana, fatta di agrume fresco, che plasmata dalla macerazione in anfora vira su note di tè verde, mentuccia, con sorso nervoso e slanciato, e scia salina che si fonde a una nota tannica sottile ed elegante.
Ci spostiamo in Emilia con il Bianco di Vino del Poggio (Andrea Cervini, lotto 2017) da uve malvasia vinificate in acciaio con macerazione di 3 mesi. Si mantiene la vena aromatica e floreale tipica del vitigno, unita ad un frutto maturo ma succoso. Naso impreciso per una vena di volatile che fa capolino e amplifica gli aromi verso note di erbe , e innerva il sorso con qualche screpolatura. Qui per la prima volta incontriamo qualche elemento al limite del difetto, che può interdire alcuni degustatori. Ma un buon bevitore non dovrebbe rinunciare a dare una possibilità a queste versioni, cogliendone e accettandone le piccole cicatrici che le rendono così affascinanti, benché meno precise.
Su questo fronte si fa più impegnativo per molti l’approccio al Sialis Pinot Grigio 2015 di Franco Terpin. La volatile è ben percepibile, a tratti copre i profumi e necessita aria per liberare il calice, che per giunta appena versato era in riduzione. Un vino che brama aria e sfoggia intriganti sfumature solo a chi ha pazienza di attenderlo e mettersi in ascolto. Sotto ci sono cenni di agrume, olive taggiasche, erbe mediterranee. Il sorso è avvolgente ma scalpitante, senza tuttavia asperità tanniche, anche per via di una macerazione piuttosto leggera, di soli 8 giorni. L’affinamento di un anno in barrique addolcisce il vino senza lasciarne segni che riconducano al legno.
Tutt’altra situazione col vino che forse andava fuori tema, ovvero il Carat 2016 di Bressan. Brevi le macerazioni sulle bucce per questo blend di friulano, malvasia istriana e ribolla, fermentazioni a temperatura controllata e poi affinamento in legno (barrique e fusti di rovere da 2000 litri) per un anno. Naso elegante, di spezie dolci, tè nero, tabacco, scorze di agrumi, una nota un po’ dominante di legno di matita. Quest’ultima sensazione torna anche al palato, coprendo un po’ il frutto, in un flusso elegante e caldo, leggermente metallico nel finale. Piaciuto a molti dei presenti, un vino senza sfregi né difetti, ma a mio avviso anche senza il guizzo che smuova un minimo di sentimento.
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A ruota continuiamo il viaggio in Friuli spostandoci nel Collio con l’Orange One 2017 di Paraschos, uvaggio di friulano, malvasia istriana e ribolla gialla raccolte da vigne di età compresa tra i 30 e i 40 anni, piantati sul tipico terreno marnoso-arenaceo locale, detto ponka. Da qui ai seguenti assaggi lo stile di vinificazione si fa molto simile: fermentazioni in grandi tini di legno, aperti, poi maturazione per 30 mesi in botti grandi. La macerazione sulle bucce si protrae in questo caso per un mese, ottenendo nel vino una bella tonalità arancio vivo. Il calice arriva al naso rustico, innervato di una volatile ben percepibile, ma frammista ad un turbinio di fiori secchi, mandarino, rosmarino, spezie piccanti. Sorso coerente nel sapore policromatico, ruvido di tannino e acidità pulsante. Gioca di contrasti, ombre e squarci di luce. Il tempo nel bicchiere gli fa digerire aria e restituire maggior frutto e un sorso più disteso.
Andiamo nel Carso triestino di Zidarich con una doppietta di pari annata. La Vitovska 2017 è emblematica. Il vitigno si esprime appieno, scapigliato e luminoso, vibrante di acidità, quasi citrina ma non aggressiva, di sapidità carsica che esce nel finale, lungo, succoso, finemente amaricante. Altra dimensione per il Prulke 2017 (sauvignon blanc 60%, vitovska 20%, malvasia 20%), dai tratti esotici, una vena vegetale fine, ha sorso morbido, avvolgente e scorrevole, segno di uve ben mature, ma pienamente sostenuto da spina acida, qui mitigata da un corpo più formoso. Due vini davvero buonissimi pur con espressioni tanto differenti, che rendono giustizia alle uve di partenza, che seguono il medesimo processo di vinificazione, sempre con macerazione in tini aperti e successivo affinamento in botti grandi per due anni.
Torniamo nel Collio con un altro grande interprete, allievo di Gravner e vero vignaiolo-filosofo: Damijan Podversic. Anche qui un’accoppiata pari annata ci aiuta a comprendere come un uso attento e consapevole della macerazione sulle bucce non solo non tradisca uve e territorio, ma le possa esaltare. Il Nekaj 2014 , da sole uve friulano, palesa la presenza di botrytis in vigna in questa annata fredda e piovosa, con sentori di miele e pappa reale, camomille, poi un cenno vegetale si mischia a sensazioni di orzo. Il palato è sferzato di freschezza e regala sapore con eleganza, senza spigoli e con un piacevole finale ammandorlato. La Ribolla 2014 si esprime su note più dolci, di frutto giallo maturo, biscotto, albicocca, per aprirsi su un ventaglio di resine e incenso. Sorso radioso e avvolgente, luminoso e caldo come un sole al tramonto. Confortevole come un abbraccio tanto atteso, lascia un alone di felicità.
Tante attese per l’ultimo campione, di cui ricordo l’assaggio di qualche mese fa come uno dei vini più intensi ed emozionanti mai bevuti. Parliamo della Ribolla 2010 di Gravner. Altra annata segnata dalla botrytis cinerea in vigna, a causa delle frequenti precipitazioni. Ma anche in questo caso un autunno più clemente ha portato a maturazione le uve con ottime acidità e sviluppo positivo di muffa nobile. Qui la macerazione sulle bucce dura mesi e si svolge in anfore georgiane interrate, per poi trasferire il vino in grandi botti di rovere dove riposa per 6 anni. Vino molto più chiuso di come lo ricordavo, trincerato dietro note di nocciola e mandorla, cereali e frutto giallo maturo. Si apre con timidi accenti agrumati, offre note minerali di roccia. Il sorso è elegante e profondo, intriso di sapore, senza spigoli, ma anche senza il nervo emozionante che ricordavo dalla precedente esperienza. Ma questo è il bello dei vini veri, che non possiamo pretendere uguali da una bottiglia all’altra.
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Questi vini oltre che stupirci e piacerci o meno penso che possano farci ragionare e tornare a dare valore al gesto umano. Considerare ogni gesto come parte di un’esistenza in contatto con tutto quello che ci circonda. Ricordare la natura che sta dietro al tutto. Accettarla con le sue luci e i suoi diluvi, col suo vento violento o il suo calore bruciante. Mettere la nostra umanità anche nel gesto di bere il vino, assicurandoci che sia “cibo per l’anima” (cit. Damijan Podversic) e non veleno o dipendenza. Metterci in discussione, sempre, davanti al tempo, davanti alle idee, davanti allo specchio, davanti a un calice.
“Accorgersi dei prodigi degli altri in fondo è l’unico prodigio che possiamo compiere” [Franco Arminio]
Matteo Carlucci Blogger
Sommelierdellasera