lunedì, Febbraio 24, 2025
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Quando il Nebbiolo è meglio chiamarlo Chiavennasca di Matteo Carlucci

Mi appassiona il nebbiolo, da quando lo approfondii dapprima con i Barbaresco, poi con i Barolo, scoprendo vini di grande spessore e carattere, dal tannino rombante e dalla bocca coinvolgente. Vini talvolta austeri, difficili da leggere per il meno avvezzo, spesso dotati di signorile eleganza, pur senza rinunciare a trama fitta di materia e di sapore. Poi scoprii il nebbiolo al di fuori della Langa, e mi si spalancò un mondo fantastico di vini di montagna. L’Alto Piemonte con le sue mille forme che assecondando denominazioni così vicine, così piccole, così multicolori, capaci di plasmare il nebbiolo con nervo e sottigliezza. Ma nel mio cuore si è ricamata da subito un posto d’elezione la Valtellina.

Sarà che si pone come una anomalia geografica, con i suoi vigneti poggiati solo sul pendio esposto a sud, di una valle che corre da est a ovest, lì in quell’arco alpino dove i fiumi scendono quasi tutti da nord a sud. Una zona di pareti rocciose verticali e vertiginose, con muretti a secco che sono veri monumenti di una viticultura tanto eroica quanto lungimirante e a suo modo folle. Io amo la singolarità e la follia, e adoro i vini capaci di tradurre nel calice l’identità dei luoghi e delle genti che contribuiscono a crearli.

Nella degustazioni organizzata qualche sera fa nella ormai collaudata e familiare saletta dell’Osteria Don Abbondio di Forlì con i Sommelierdellasera, abbiamo esplorato le sottozone della Valtellina con una moltitudine di assaggi tanto diversi quanto uniti da un unico filo riconoscibile da tutti, al netto del palato e della sensibilità di ognuno. Si trattava di vini fatti di ricamo, che poco o nulla spartiscono con i nebbioli di Langa. Qui tutto è sussurrato, nei profumi come nelle sensazioni tattili di bocca. Difficilmente c’erano vini fuori giri di alcool, o dal tannino masticabile, o dal nervo indomabile. Certo deponeva a loro favore l’aver scelto annate col giusto tempo sulle spalle per accomodare spigoli e integrare il sorso, ma anche le due espressioni più giovani, di una realtà oltretutto recente come Dirupi, hanno confermato una traccia di fondo che sembra travalicare lo stile dei produttori. Abbiamo apprezzato la differenza di annata tra un Valtellina Superiore 2015, morbido e di frutto dolce, ed il Valtellina Riserva 2014, scalpitante di acidità e speziato, con qualche nota di legno in più ma ben centrata, e un sorso dinamico quanto saporito. Coccole e schiaffi.

Sublime la bottiglia di Sassella 2011 di Alfio Mozzi, con sorso succoso di arancia a frutti rossi, dal ribes ai fichi neri, tannino finissimo e tanto sale ad avvolgere la bocca e chiamare ancora al calice.

Salinità che abbiamo trovato rabbiosa nei Sassella Superiore Riserva Del Negus di Leusciatti. Una artigianalità verace che si può intuire dai sugheri deformati da una vecchia tappatrice manuale (di quelle a leva), e confermata da due vini tanto diversi quanto intriganti, nati da due annate successive e ben difformi. La 2010, prima uscita di questa etichetta, non è annoverata tra i millesimi più felici della zona ma a Leusciatti deve avere dato qualcosa di più della media se ha scelto di ottenere per la prima volta questa selezione. Ed il calice gli dà ragione, con un sorso sottile e teso, di frutti neri e note balsamiche vibranti, scorza di agrume e trazione salina poderosa, con accenni ferrosi. A calice fermo dopo tempo prevale una nota nitida e potente di timo selvatico. La Riserva 2011 ha frutto più maturo, note di sottobosco e radici, sorso più pieno e polposo (nonostante mezzo grado in meno di alcol in etichetta), con maggiore traino di gusto in bocca, pur con quella traccia salata finale, qui più addolcita dai ricordi di frutto.

Da ricordare anche l’Inferno 2002 di Rainoldi. Scaraffato a causa di un tappo sbriciolatosi in fase di stappatura, al momento degli assaggi era aperto e concessivo, evoluto quanto basta per goderlo appieno. Sottobosco, frutta matura anche dai toni di albicocca e pesca, accenni di cenere, speziatura fine che cresce al contatto con l’aria, tannino dolce ma presente, saporito ed elegante in chiusura. Bella espressione della sottozona, in vendemmia considerata straordinaria, al contrario che nella maggioranza resto d’Italia.

Per dovere di cronaca abbiamo inserito anche uno Sfursat, il 2013 sempre di Rainoldi. Vino piacevole e piacione, innervato di note erbacee, ben inserite per quanto strane da avvertirsi in un vino da uve appassite. A tanti è piaciuto, per uno stile che distrae dall’anima montana degli altri vini assaggiati, portando in dote tanto calore e omologando il sapore senza guizzi e peculiarità uniche. Io ne ho trovato il sorso pesante e caricato oltre modo, molto distante dalla mia idea di Valtellina, ma persino di nebbiolo da qualsivoglia area geografica.

Abbiamo sfidato la sorte ed il tempo con una bottiglia di Inferno di Bettini, datata 1966. Qui l’evoluzione era dominante, con note di caffè, nocino, cioccolato, cenere. Divertente il sorso, ancora innervato di acidità, con tannino ormai risolto e un finale ancora permeato da un ricordo di sale e da una nota ematico-ferrosa.

Infine una trilogia di Ar.Pe.Pe., a spasso per zone e annate. Siamo partiti col Sassella Superiore Stella Retica 1998, di grande espressività con balsami e ancora qualche guizzo di fiori viola e frutti scuri, sorso equilibrato e avvolgente, setoso nel tannino, e un connubio acido-sapido che ne trascina il finale a lungo.

Abbiamo proseguito col Sassella Rocce Rosse 2005, dalle vigne dove per prima è stata concepita una Riserva da questa azienda. Dolci confetture di frutta rossa, sensazioni di terra bagnata e bosco. Ci trasporta in un paesaggio autunnale, dolce, silenzioso, poetico nella sua eleganza. La bocca è ricamata, tutto è integrato e aggraziato. Una coccola per il palato, un sapore infiltrante e lungo, per quanto raffinato e mai gridato.

Chiosa della serata con l’unico vino che forse alla cieca, avrebbe sparigliato le carte e fatto la figura dell’intruso, con carattere da potersi avvicinare a nebbioli di altre lande. Il Grumello Superiore Riserva Buon Consiglio 2001 non si vergognava di offrire naso sfacciato, di spezie ed erbe balsamiche, frutta rossa (rosa canina, ribes e melograno), fiori viola di glicine, poi note di china, e col tempo un susseguirsi di suggestioni. Impressioni confermate dal sorso, dove scalpitano le sensazioni, amplificate da un frenetico e travolgente valzer di tannino, sale e acidità. Chiude con una sensazione amaricante di rabarbaro, unico accenno di questo tipo riscontrato negli assaggi di questa sera, ma pregevolmente inserito in un sorso tanto dinamico quanto ancora rigoroso, tanto godibile quanto di prospettiva. 

Lasciamo il tavolo con occhi sognanti, con la mente che vaga ancora tra terrazze scavate nella roccia, baciate dal sole, bagnate dal sudore di chi le mantiene in vita e ci permette di poter apprezzare questi capolavori di caparbietà vitivinicola. Respiriamo gli odori della montagna nei calici, accarezziamo ancora il palato con la lingua a cercare il sale della Sassella, il tannino di seta della chiavennasca, e mi viene voglia di non confonderla più con il “nebbiolo”. Forse anche il nome declinato al femminile ne aumenta la bellezza e le rende più giustizia. Forse da quella sera la Valtellina sarà, per me, la terra della Chiavennasca.

Wine blogger

Matteo Carlucci

Sommelierdellasera

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