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ALTO ADIGE, UNO SGUARDO CRITICO Di Francesco Falcone

Il primo aspetto che dell’Alto Adige rimane negli occhi del viaggiatore, è la luce. Nitida, brillante, verticale, un laser tra frutteti e vigneti, tra montagne e fiumi. Poi c’è il vento, che tira forte: è il tiepido Favonio (Föhn in tedesco), che spazza via le nuvole e rende miti le temperature diurne: esso si presenta quando le correnti d’aria, nel superare le Alpi, arrivano lungo la Valle dell’Adige perdendo parte della propria umidità per aver scaricato a monte le precipitazioni più minacciose. Dopodiché i terreni, calcarei o basaltici, bianchi o rossi, più o meno argillosi, ma sempre leggeri, permeabili, in grado di conservare l’opportuna sanità anche nelle stagioni più difficili.

Un’altra qualità prettamente altoatesina è l’ordine. Ordine civico e urbanistico, ordine agricolo e sociale, ordine programmatico, produttivo, organizzativo. Ordine che è anche la più spiccata peculiarità enologica locale, tanto che l’Alto Adige è per molti bevitori un approdo sicuro, un orologio di impeccabile precisione, uno straordinario bacino di vini tecnicamente irreprensibili, spesso profumati e di solito appaganti.

Infine c’è la competenza degli addetti ai lavori, proprio di tutti gli operatori che orbitano intorno alle cose vinose: agronomi, enologi, sommelier, ristoratori, distributori, osservatori, consorzi; tutto il comparto è dunque è governato con disciplina e prospettiva, qualità di spiccata cultura nordeuropea.  

Tutta questa quantità di elementi positivi ha condotto la provincia di Bolzano – soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso – in direzione di vini implacabili in termini di costanza, irreprensibili tecnicamente, ideali per il pubblico più eterogeneo, dall’appassionato più colto al più distratto dei neofiti.

Va detto che la proposta odierna è così priva di defaillance che da qualche tempo gli enofili più temerari rimproverano addirittura l’Alto Adige di un eccessivo controllo, di una sorveglianza quasi pedante, di un tecnicismo ostile alle emozioni. Da qui il luogo comune che da anni ne rispetta lo standard qualitativo ma li inscrive nel contesto ovvio dei prodotti ben confezionati e un po’ noiosi.

In effetti la ricerca esasperata della perfezione formale, e insieme la predilezione dell’uniformità sulla varietà, dell’omogeneità sulle differenze, dell’ortodossia sulla creatività, della comunità sulle individualità, della cooperazione sulle piccole intraprese agricole, se ha premiato l’Alto Adige dal punto di vista commerciale, ha talvolta negato alla zona la realizzazione di vini più originali e unici, se vogliamo più appetibili per i grandi amatori.

In tal senso, il vero limite dell’Alto Adige è la sterminata quantità di opzioni varietali a cui i produttori attingono per realizzare la loro gamma. È infatti non plausibile che ciascuna delle venti uve coltivate possa trovare all’intero di ogni comune, di ogni località, di ogni sito aziendale le condizioni per esprimersi al meglio. Eppure sovente molte cantine, in particolare le più grandi, tendono ad allestire cataloghi sterminati e compilativi, in cui ogni variazione varietale non è solo possibile, ma indispensabile.

  (Foto da evento Sommelierdellasera del 20 Settembre 2019)

DIECI PUNTI PER ALCUNE RIFLESSIONI

1        In Alto Adige si beve mediamente benissimo. E si spende il giusto. Difficile ottenere di meglio soprattutto sul versante bianchista. Cresce a ritmi sostenuti la qualità del Pinot Noir (ma dimenticatevi la Borgogna). Le migliori Schiava, “chiaretti” naturali dalla beva compulsiva, andrebbero rivalutate definitivamente.

2       In Alto Adige uomini e donne possiedono un solido materialismo nel sangue, come un estratto di Speckknödel, e questo lato del loro carattere si traduce (non sempre, ma spesso) in progetti fin troppo razionali. Forse, ogni tanto, un poco di geniale improvvisazione farebbe bene alla salute del vino altoatesino.

3        E va bene che l’organizzazione deve sempre prevalere sull’approssimazione, altrimenti si fatica a raggiungere obiettivi concreti, ma occorre rammentare che tutte le migliori organizzazioni possono fallire. E in moltissimi modi: perché di solito uno dei loro tanti meccanismi interni, uno qualunque, perfino quello apparentemente più solido, s’inceppa, facendo franare tutta la struttura. Si può prevedere tutto, ogni singola manovra, ogni dato parziale, ogni più insignificante grado di cambiamento, eppure il cortocircuito non si può mai escludere. Mai. A tal proposito, non ho amato le prime uscite di quei vini, soprattutto bianchi, chiamati “gran selezioni”, presenti a tirature molto limitate e a prezzi altissimi nei listini di molte cooperative. In queste bottiglie la razionalità sudtirolese aggiunte il suo zenit e va in fuorigioco: le premure prevalgono sulle minuzie, schemi e protocolli prevalgono sulla spontaneità.

4       Qualche volta negli enologi altoatesini, come detto bravissimi, la voglia di dimostrare la propria bravura surclassa o trasfigura le effettive esigenze di vitigni e territori, generando dunque liquidi irreprensibili nella cura, lussuosi nella confezione, ma in debito di spontaneità.

5        Forse la mentalità del comparto altoatesino è più commerciale, più mercantile che non territoriale. Forse i winemaker altoatesini sono ormai più collaudati ad assemblare che non a isolare le singole personalità del territorio. Sara davvero così?

6       Mi domando se non sarebbe ben più lungimirante per il futuro della regione creare delle selezioni di terroir specifici, piuttosto che selezioni grandi (o grosse?) che rischiano di apparire apolidi, fuori tempo massimo, senza benefici effettivi per l’intero sistema.

7        Allora, e chiudo, perché non inserire nel sistema un briciolo in più di spontaneità, appena un po’ di leggerezza, per provare a intercettare quei tanti appassionati, spesso i più smaliziati, che considerano i vini regionali incapaci di spiazzare, scuotere, emozionare? Basterebbe poco, in fondo. O forse troppo, chissà.

8       Alle future sottozone in Alto Adige credono in pochi. E chi ci crede è deluso dal progetto su cui si sta sviluppando la definizione delle aree viticole. Un progetto che pare avere più a cuore il mercato (dunque le esigenze commerciali delle singole cantine) che non il terroir. Vedremo.

9       Le etichette riservate alla menzione di “Vigna” – prodotte a partire da “Climat” storici e/o di lunga tradizione – vanno gradualmente aumentando, ma anche lì con criteri non sempre chiarissimi. Ad esempio, sarebbe opportuno che ci fosse chiarezza su quali vitigni puntare nei singoli vigneti delimitati: non è credibile che in uno stesso sito si possano valorizzare fino a quattro/cinque varietà.

10   La Schiava continua inesorabilmente a diminuire perfino nei luoghi a lei più congeniali. Ai ben noti problemi commerciali si affiancano quelli sanitari, con la Suzuki (il parassita Drosophila Suzukii Matsumura che adora svernare al riparo dell’ombrose pergole) sempre in agguato nelle giornate umide e non molto calde. Un vero peccato, perché appare evidente come una gestione agronomica avveduta (scongiurando rese troppo alte) e un’enologia sensibile alla fragile eleganza del vitigno, possano andare in direzione di rossi realmente montanari, frugali ma non scarni, semplici senza essere banali, portatori sani di trasparenza, gastronomicità e originalità. E talvolta insospettabilmente longevi.

Francesco Falcone

Degustatore, divulgatore e scrittore indipendente. 

fra.falcone2003@libero.it

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