lunedì, Febbraio 24, 2025
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Domenico Clerico, alle origini del nuovo Barolo Di Francesco Falcone

Arrivai ai Manzoni di Monforte, nella vecchia cantina di Domenico Clerico con qualche minuto di anticipo rispetto all’ora fissata. Essendo nel pieno della potatura invernale, il Leone di Langa si trovava alla Ginestra, dove ancora oggi vengono coltivate le più importanti vigne aziendali.

Nel frattempo salutai per bene Giuliana, sua moglie, e scambiai due battute con Massimo Conterno, suo braccio destro di allora, che non vedevo da qualche mese e che quel pomeriggio mi sembrò, chissà perché, meno magro del solito. Ma forse, come del resto mi suggerì lui stesso, era solo l’effetto del vapore che usciva dalle barrique, mentre le sterilizzava con l’idropulitrice.

Domenico tornò a casa sulle quattro, con il solito sguardo sornione e l’immancabile Marlboro tra le dita. Se la memoria non mi inganna, doveva essere una tersa giornata di fine inverno pedemontano, mentre un embrione di primavera regalava la luce giusta per scoprire la prodigiosa corona delle Alpi, guardando verso Nord.

Quella mattina Domenico si era messo in moto di buon’ora, nonostante fosse rientrato tardi dall’ennesima degustazione fuori porta. Per lui era normale dormire non più di quattro ore per notte: amava aggredire la vita così, senza pause.

Era un uomo talmente dinamico che perfino la sua mobilità facciale meritava un’analisi. E se l’interlocutore non era attento, rischiava di perdere impagabili sfumature somatiche, un sicuro ferro del mestiere che univa e consolidava simpatia e consapevolezza, vitalità e sagacia.

A volte i suoi occhi vagavano lontani al ricordo di episodi forti: felici e drammatici, c’era spazio per ogni sentimento, nella sua esistenza. Eppure le scintille di passione si accendevano solo quando si parlava di Langa: <<la nostra terra è stata maltrattata nel corso dei secoli, ma lei ha sempre reagito e per questo va baciata ogni giorno. Nonostante le nostre bestialità, lei ci ha salvato dalla fame e ci ha cambiato la vita>>.

Il testo che segue è un’intervista a Domenico Clerico raccolta nel febbraio del 2006. L’ho tirata fuori dal cassetto dei ricordi e rileggendola mi sono accorto che ha ancora qualcosa d’interessante da dire, per tanti appassionati.

Per non raffreddare la temperatura emotiva del suo pensiero, ho omesso le mie domande, conservando solo le sue risposte.

Domenico non c’è più, la morte se lo è portato via nella bollente estate del 2017. Aveva 67 anni.

Il mio, è un modesto contributo per non dimenticarlo.

<<La Langa era molto povera economicamente, così povera che non era facile farsi apprezzare se sapevano che eri di qui. Tra la fine degli anni Cinquanta e il decennio successivo, quando io ero un adolescente e poi un giovane adulto, questo era un territorio spopolato. La campagna era difficile da lavorare, poco remunerativa e tutti se ne andavano.>>

<<Pensa che la gente del posto preferiva alzarsi all’alba per andare a lavorare a Torino. Facevano i pendolari e tornavano a casa la sera tardi, frustrata dalla catena di montaggio, dal viaggio e dai ritmi stressanti della città. Ma era sempre meglio che investire su un pezzo di vigna, che allora non garantiva l’avvenire. A quei tempi se c’era qualche giovane che andava a lavorare nel campo lo faceva solo per rispetto e devozione nei confronti della famiglia, non di certo perché sperava in un futuro migliore. Non c’era futuro, solo fatica e sudore. In nome di tuo padre e di tuo nonno.>>

<<La bellezza di quegli anni è legata alla mia gioventù. Io sono nato in una famiglia contadina, povera ma dignitosa. Quel poco che avevamo era frutto di sacrifici e di piccole conquiste quotidiane. Mi ricordo perfettamente la nostra prima toilette in casa: lavarsi al caldo per la prima volta è una sensazione così piacevole che non ti abbonda mai più. E poi la nostra prima televisione, il primo frigorifero e così via.>>

<<A quei tempi c’era una dignità, un senso di appartenenza alla terra che oggi si è persa: eravamo una comunità vera, con una complicità che ormai non esiste più nemmeno nelle migliori intenzioni. C’erano le piccole storie di campagna e c’era una vicinanza tra le persone che oggi è raro trovare perfino tra membri della stessa famiglia. Durante la trebbiatura, ad esempio, ci si aiutava ed era l’occasione per fare amicizia tra giovani: in quei momenti nascevano anche le prime storie d’amore, le prime passioni.>>

<<Ho fatto tanti lavori. Il cameriere, il rappresentante di generi alimentari, ho addirittura fondato una piccola agenzia con un paio di amici, poi però le cose non sono andate come speravo e sono tornato a casa, qui ai Manzoni. Era il 1976. Qui fino alle fine degli anni Ottanta c’erano anche le bestie, non si campava solo con l’uva, come ovunque. Per molti anni ho venduto ai rivenditori la frutta che raccoglievamo intorno a casa, era un modo per far quadrare i conti.>>

<<Nel 1977 ho vinificato sotto una tettoia di lastre di alluminio. Una vendemmia piccola sia nella qualità che nelle quantità prodotte. Avevamo tre ettari di vigna qui ai Manzoni dove c’erano Dolcetto e Barbera e poco più di una “giornata” nella Bussia, sotto il Bricco Cicala di Aldo Conterno, dove si coltivava solo Nebbiolo.>>

<<Il mio primo Barolo lo produssi nella vendemmia 1979. Una vendemmia così così, diciamo più di finezza che di pienezza. Gli detti il nome della vigna da cui proveniva, Briccotto Bussia. Ma non si vendeva. Riuscivo a far fuori Dolcetto e Barbera, ma tribolavo col Barolo. Si faceva fatica a far apprezzare la sua proverbiale austerità.>>

<<Nel 1981 comprai il Ciabot Mentin, alla Ginestra. E dall’anno successivo cominciai a vinificarlo a parte, vendendolo poi con una sua etichetta specifica. Nel 1990 gli affiancai il Barolo Pajana, che viene da un appezzamento intorno alla cascina omonima, sempre nella Ginestra. Il Barolo Percristina invece nasce con la vendemmia 1995 e proviene da una vigna diversa che si chiama Mosconi.  Sta a sud della Ginestra. Io e Giuliana l’abbiamo dedicata a nostra figlia, che non c’è più.>>

<<Come tutti i miei colleghi in quegli anni, giravo porta a porta. Sceglievo i ristoranti segnalati dalla Michelin e dalla Guida Veronelli e mi mettevo in viaggio. Cercavo i ristoratori migliori, qualcuno disposto ad assaggiare i miei vini, a credere in uno sconosciuto. Non è stato facile, ma devo dire che il prestigio viticolo di questa terra è servito a qualcosa. Diciamo che ti dava qualche punto di vantaggio sulla concorrenza. Almeno nei ristoranti di un certo blasone.>>

<<A quei tempi i miei produttori di riferimento a Monforte erano i due Conterno, Aldo e Giacomo, e ancora di più Violante Sobrero, che molti appassionati di oggi potrebbero non conoscere, ma che produceva Barolo straordinari. Cavallotto e Vietti a Castiglione Falletto erano già molto apprezzati e con loro Borgogno, Oddero, Prunotto, Renato Ratti, la Marcarini di Elvio Cogno e Marengo Marenda. Tra i piccoli, Pira, Barale, Rinaldi e Mascarello a Barolo godevano di buona reputazione.>>

<<Un tempo non c’erano i turisti di oggi, ma già allora i principali comuni del Barolo erano ben frequentati. A Monforte il ristorante da Felicin era un punto di riferimento per gli appassionati, anche perché al contrario di quanto accade oggi, allora le bottiglie di rango  le trovavi solo nei grandi ristoranti. Non esistevano i wine bar, era impossibile trovare una buona carta dei vini in una pizzeria e le osterie vendevano solo sfusi.>>

<<Non c’è una data precisa in cui noi piccoli diventammo famosi. Fu un percorso lungo che riunì un gruppo di giovani produttori che decisero di fare “squadra”, di iniziare un progetto comune. A parte Enrico Scavino, l’unico che aveva già una storia commerciale alle spalle, noialtri eravamo acerbi. Nel 1990 creammo “Langa In”, un’associazione di vignaioli che ebbe come obiettivo non solo il miglioramento delle comunicazione, ma anche e soprattutto la costruzione di un sogno. Il sogno era quello di ritrovare lo spirito della mia Langa, quel senso di comunità, di mutualità che nel tempo si era perduto. In quegli anni imparammo tanto, assaggiammo grandi vini, provammo a confrontarci con il mondo, ad aprire le porte al nuovo. È da lì che siamo partiti.>>

<<Per molti anni la sperimentazione ci portò ad avvicinare nuovi stili, a crearci nuovi punti di riferimento. Fu quello il tempo, ad esempio, dei primi blend di Langa, nati nel solco tipologico caro ai supertuscans chiantigiani: l’obiettivo era identico, ovvero rilanciare il mercato attraverso vini puliti e facili da capire. I Barolo della vecchia scuola erano duri, evoluti, complicati e spesso mal curati. Noi pensammo che un Nebbiolo meno austero e più fruttato avrebbe potuto riavvicinare il consumatore al nostro lavoro. Uve più mature, estrazioni più delicate, maturazioni in legno nuovo per scongiurare riduzioni e puzze, invecchiamenti meno logoranti: questo fu il nostro intento.>>

<<Sono molto legato al mio Arte, un rosso sui generis, per certi versi sperimentale, che nacque come Nebbiolo in purezza nel 1983 a cui nel 1985 aggiunsi una piccola percentuale di Barbera (che garantiva un bonus di acidità) e nel 1997 il 5% di Cabernet Sauvignon (che ho abbandonato dalla vendemmia 2002). Alcune vecchie bottiglie sono squisite e sanno di Langa, senza riserve.>>

<<Grazie alla complicità della stampa e di tutti gli operatori del settore, i nostri vini cominciarono a godere di un’apertura di credito da parte degli appassionati e questo servì ad alimentare una nuova curiosità intorno alla Langa. Al contrario di quanto si dice oggi, noi puntavamo a valorizzare la tradizione, non a disperderla: tradizione in senso dinamico, vitale, non statico e su questo punto anche Bartolo Mascarello era d’accordo con noi. Lui non fu d’accordo sull’uso della barrique, non sui sullo spirito che ci animava.>>

<<Pensa che negli anni Settanta e Ottanta l’uva non era pagata o era pagata pochissimo: arrivava il tecnico da fuori – nessuna azienda, a parte eccezioni, aveva un agronomo in vigna – e ti faceva usare un monte di fitofarmaci. Per certi versi mi fanno ridere quelli che rimpiangono il vino di una volta, il vino del nonno: a quei tempi non era importante fare uva buona tanto non saresti stato gratificato nemmeno producendo un chicco per pianta. L’uva non valeva nulla, nel senso letterale della parola. La gente in campagna adoperava concimi per produrre di più, riducendo i costi, senza rischi. Non c’era un metodo, non c’era un protocollo, non c’era un progetto. Contava solo la sopravvivenza. Poi da metà degli anni Ottanta si iniziò a capire che produrre meglio e con meno concimi in campagna dava come risultato immediato un uva più ricca, più concentrata. E di conseguenza vini che piacevano di più alla gente.>>

<<La mia prima barrique la comprai nel 1979, ma solo dal 1984 iniziai a utilizzarla con frequenza per la maturazione del Nebbiolo. Capimmo che il legno piccolo ci dava una mano ad ossigenare il vino, con un conseguente miglioramento dei profumi, della struttura e della stabilità polifenolica. Si ottenevano Barolo più ricchi, pieni e densi. Prima di allora, credimi, la maggior parte delle botti utilizzate per maturare il Barolo erano vecchie e sudice: venivano smontate, bonificate e riadoperate all’infinito, anche perché il Barolo non dava reddito. Lo tenevi in casa quattro anni almeno e poi faticavi a venderlo. Grazie al nostro esempio anche chi adoperava botti grandi ha capito che la pulizia dei legni era importante per scongiurare imprecisioni e rusticità.>>

<<Facemmo degli errori, del resto chi non li ha fatti? All’inizio, ad esempio, tutti noi abbiamo fatto vini legnosi, perché non sapevamo usare le barrique. Anche se forse l’errore più grande è stato fatto quando, intorno alla metà degli anni Novanta, si è lasciata sullo sfondo la vigna a  favore della tecnica, dell’enologia spinta. Dopo venticinque vendemmie, posso dire di aver imparato che la vigna è l’unico luogo in cui vale la pena investire. Dobbiamo difenderla con i denti, imparare a conoscerla, a osservarla. È li che si gioca la partita dei prossimi anni.>>

<<Oggi in Langa stanno cominciando a farsi notare tanti nuovi produttori giovani e intelligenti, spesso figli di vignaioli della mia età o più vecchi: è una generazione fortunata perché se vogliono capire, aprirsi, provare, lo potranno fare con più facilità rispetto a noi. E noi dobbiamo dargli una mano. Sono i giovani che creano una tensione positiva, a cui frullano idee buone, nuove, migliori. Sono i giovani che danno energia a un territorio, che stimolano il tessuto produttivo. La nostra generazione ha cercato di guardare lontano, ma non in modo sufficiente, anche perché eravamo poco preparati. Grazie a molti giovani, che senz’altro sapranno fare meglio della mia generazione, Barolo è una denominazione destinata a un futuro radioso.>>

Francesco Falcone

Degustatore, divulgatore e scrittore indipendente. 

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