Sono un assaggiatore che attraverso il vino prova ad arricchire la sua scrittura. Ho necessità di assaggiare con attenzione per scrivere in modo decoroso. Non sono mai stato capace, ad esempio, di rifugiarmi nella scorciatoia dei punteggi. L’idea che un wine writer debba produrre soprattutto “punteggi” la trovo non solo un’occasione mancata (un titolo così altisonante meriterebbe certamente maggiori aspettative), ma una pratica noiosa.
Ragionando sul mio metodo di degustazione, da anni ormai non mi fermo all’impressione del primo naso e del primo sorso, ma concedo al vino – e a me stesso – più occasioni per esprimere qualcosa e per coltivare la scrittura. In tanti anni di lavoro ho capito che uno dei punti fondamentali per svolgere con consapevolezza il mestiere del degustatore è l’empatia.
Un vino, e parlo di un vino di qualità, deve essere trattato con rigore e comprensione, attenzione e complicità. Tutto questo dipende dalla capacità di empatia del degustatore. L’empatia non si limita alle risposte emotive immediate e scontate: è facile provarla per una bottiglia prestigiosa acquistata in enoteca per scelta e per conoscenza diretta, è molto più difficile metterla in campo quando una batteria di calici contiene una tipologia di vino tanto poco nota quanto imprevedibile, che fatica a concedersi e predispone al dubbio.
È quindi assai più complicato quando la forma, il profilo, il carattere del vino o dei vini entrano in conflitto con la nostra formazione e con i nostri gusti. La nostra capacità di provare empatia in una vasta gamma di situazioni deve essere dunque coltivata saggiamente se si vuole essere degustatori consapevoli.
Quando coltivo l’empatia cerco di vedere le cose dal punto di vista del vino, del produttore, del vitigno, del territorio in cui nasce, della stagione che lo ha nutrito. Provo a capire che cosa possiede di speciale e di unico; tento di portare una consapevolezza empatica in ogni momento della degustazione. Questo significa – sebbene non sia affatto facile – provare a essere consapevole anche della mia sensibilità.
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Per entrare in stretto contatto con un vino, il mio assaggio si sviluppa in triplice modalità: prima alla cieca, poi a etichetta scoperta, infine il giorno dopo la stappatura. La prima fase ti dà un’istantanea, la seconda un’analisi approfondita, la terza ti consente di testarne il comportamento all’aria. Per stretta conseguenza, ho sensibilmente ridotto il numero ideale di campioni da degustare in una sessione: una trentina, mai di più.
Un altro elemento cardinale per un degustatore è l’accettazione. Il degustatore che sa accettare è un buon degustatore. Cos’è l’accettazione quando si assaggia un vino? Per semplificare direi che si tratta di un orientamento a riconoscere con critica dinamicità i vini così come sono.
L’accettazione non è passiva, non ha niente a che vedere con un atteggiamento pilatesco, malleabile a seconda dei casi. Saper accettare un vino non significa che qualunque vino debba starci bene. L’accettazione è una porta che se scegliamo di aprire, ci conduce a vedere, sentire, analizzare attraverso più possibilità interpretative, valutando il maggior numero di indizi che il vino ci fornisce.
Molto spesso come assaggiatori e come persone siamo prigionieri di una visione univoca delle cose, condizionati da sensazioni, sentimenti e opinioni che non vengono frequentemente “sorvegliati” ed esaminati con la giusta dose di autocritica. E sovente mettiamo gli ideali al di sopra dei contenuti. In quei momenti, e parlo per esperienza personale, è facile sentirsi controllati e manipolati dagli schemi, sentirsi succubi dell’etichetta e delle opinioni altrui, condizionati da una certa visione comune, da una certa tendenza prevalente.
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Poiché simili situazioni abbondano nella vita di un uomo e di un degustatore, dobbiamo tentare di liberarci da questi modelli di comportamento, sviluppando nella consapevolezza e nel discernimento, un repertorio molto più appropriato e articolato di risposte critiche ed emotive.
Via via che impariamo a osservare e accettare l’ampia gamma espressiva di un vino, incluse le sensazioni meno consuete e più spiazzanti, oppure quelle che a prima vista appaiono prevedibili, diventiamo naturalmente più coscienti del lavoro altrui. Giungiamo così a conoscere meglio il paesaggio organolettico di un vino: una premessa indispensabile per articolare un lavoro critico in un quadro interpretativo ben più ampio.
A volte capita, nelle giornate peggiori, che la mia opinione dipenda dai miei stessi bisogni, dalle mie stesse necessità, dai miei schemi mentali, dalle mie aspettative. In quei momenti quello che perdo è lo sguardo complessivo del quadro, di cui emergono solo certi colori o solo certi particolari. E una visione parziale, si sa, conduce spesso a etichettare negativamente e a giudicare senza la giusta distanza, perdendo chiarezza e prospettiva.
Se partiamo dal presupposto che vi sia una ragione sottostante al comportamento più o meno concessivo di un vino, più o meno sfumato, più o meno articolato, saremo in grado di leggerlo con maggiore apertura d’animo.
A volte i vini attraversano fasi esplosive e implosive, chiusure drastiche e strane slabbrature prima di ristabilire un equilibrio. Talvolta i vini scoppiano di energia incontrollata, in altri casi è possibile che esprimano una profonda e sotterranea turbolenza. A volte strepitano e scalciano, altre si offrono languidi e disinvolti: se siamo consapevoli di questo, allora saremo più coinvolti dalla loro differente personalità.
Francesco Falcone
Degustatore, divulgatore e scrittore indipendente.