lunedì, Febbraio 24, 2025
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BIANCHI FRIULANI, UNA RICOGNIZIONE Di Francesco Falcone

C’è uno spicchio di Mediterraneo che confina con la Mitteleuropa: si chiama Friuli ed è impregnato di storie. Storie di uomini tenaci e di celebri bianchi. Come anche di scrittori del vino che qui, a vario titolo e per ragioni diverse, ci hanno lasciato il cuore, raccontandoci emozioni indelebili: Gino Veronelli e Walter Filiputti su tutti.

Per amore della verità, va detto che solo una parte della regione possiede i presupposti per regalarci vini di alto profilo e corrisponde alla sua sezione orientale, quella a ridosso della Slovenia, là dove le terre di pianura cedono il passo alle colline (con l’eccezione delle migliori vigne pianeggianti e ciottolose lungo il corso goriziano del fiume Isonzo).

E non va taciuto, sempre per rispetto di chi ci legge, che oggigiorno i vini friulani in grado di lasciare il segno sono pochi, pochi in rapporto alla storia e al talento dei migliori terroir della regione. Troppi infatti sono i bianchi seriali, costruiti nel solco di una ricetta enologica preconfenzionata, certo impeccabili nella forma ma sovente privi di reale complessità e dunque incapaci di distinguersi e emanciparsi in bottiglia.

Si diceva delle colline. Che qui sono basse in quota, dolci e affusolate nella morfologia e che, soprattutto nel Carso e nel Collio (i Colli Orientali sono invece più spostati nell’entroterra), godono della luce (filtrata e riflessa) del vicino Mar Adriatico a Sud, compensando tanto la presenza delle Alpi Giulie a Nord (che pure fungono da preziosa barriera contro il freddo più ostico di fine estate) quanto l’elevata piovosità regionale, parecchio più alta della media italiana (il dato pluviometrico annuale registra qui oltre 1100 mm e perfino di più in alcune aree interne della provincia di Udine). È dunque in quel suggestivo frangente orientale d’Italia, cerniera fragile tra Italia e Slovenia, che tanti di noi hanno viaggiato, studiato e visitato vigne e cantine, in cambio di persone, luoghi, sguardi e ricordi indimenticabili.

La scorsa settimana ne abbiamo parlato approfonditamente a casa di Marco Casadei, bravissimo assaggiatore e generoso padrone di casa, in compagna di una nutrita rappresentanza dei Sommelierdellasera, concentrando le nostre attenzioni sul Collio, benché non siano mancati alcuni ottimi vini prodotti altrove. Intanto, tra le assenze più significative in degustazione, vanno citate almeno otto aziende straordinarie, che gli appassionati devono necessariamente conoscere: Le Due Terre, Vignai da Duline, I Clivi, Roncús, Skerk, Skerlj, Zidarich e Vodopivec.

Dopodiché, al di fuori del Collio, di cui scriveremo più avanti, abbiamo stappato quattro bianchi isontini (le ultime edizioni di Vie di Romans, del talentuoso Gianfranco Gallo, sono proprio buone); un paio di rassicuranti bottiglie carsoline (le versioni 2013 dell’ex innovatore Edi Kante, ai nostri sensi un po’ in debito di energia) e un unico (copioso) flacone dei Colli Orientali, rappresentato da quel Terre Alte della Livio Felluga (qui l’annata 2016) che a dispetto della confezione lussuosa (in borgognotta di vetro spessissimo) e della storia che l’accompagna, pare oggi fin troppo dimesso nel sapore, prevedibile nello stile e lontano dai migliori millesimi del passato. Passato che ahinoi si fa rimpiangere anche bevendo il celebre Vintage Tunina 2017 di Silvio Jermann, di ammiccante armonia e di calligrafica esecuzione, eppure incapace di spiccare il volo.

Ma torniamo al Collio (Brda in sloveno), autentico benchmark del vino friulano d’autore: circa 1500 ettari vitati camuffati in una parola brevissima, il cui suono tinge di bianco l’orizzonte di noi bevitori italici. Non solo per i quasi sei milioni di bottiglie che ogni anno vengono immesse sul mercato  (meno di settecentomila sono invece quelle di rosso)ma soprattutto per quanto si è andato depositando da decenni nella nostra memoria, che pressappoco corrisponde a un impasto di ogni varietà e tipologia possibili: dal Friulano alla Ribolla Gialla; dalla Malvasia Istriana al Pinot Grigio; dal Sauvignon Blanc allo Chardonnay; dal Pinot Bianco alle tante ipotesi di uvaggio e/o assemblaggio più o meno autoctono e più o meno esterofilo a seconda di tante (troppe) variabili possibili. Un impasto che è allo stesso tempo lievitato a suon di sogni, avanguardie, rivoluzioni e involuzioni, successi e fallimenti.   

Nel Collio, mezzo secolo fa, tra le sue terrazze marnose, i suoi borghi silenti, i suoi ronchi ondulati, i suoi campanili appuntiti, furono colti i primi germogli di quella che si sarebbe rivelata la primavera del vino italiano e che avrebbe trasformato nel giro di pochi anni i contadini in imprenditori, le loro botteghe in cantine di solida tecnologia e i loro liquidi rustici in essenze profumate, trasparenti e freschissime.

In quel periodo, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, nacquero i bianchi friulani moderni: vini che irruppero con la forza di un elefante in un mercato monopolizzato da una tradizione priva di sensibilità, di cultura e di conoscenze specifiche. Mario Schiopetto ne fu il pioniere: il suo messaggio (attente selezioni vendemmiali, vinificazioni in acciaio ed esaltazione del carattere varietale dei singoli vitigni rigorosamente imbottigliati in purezza) scardinò regole statiche da decenni, rivoluzionò il concetto di qualità e inventò una nuova maniera di intendere la viticoltura e l’enologia.

Dopodiché si sperimentarono stili sempre più prossimi alla Borgogna e poi sempre più indirizzati alla cremosità tropicale di certo Nuovo Mondo (prediligendo l’acciaio al legno), una strada fin troppo emulata e con derive talora caricaturali, tanto che molti bianchi locali appaiono oggi più alcolici che non mediterranei; più grossi che non polputi; più larghi che non ampi.

Nel frattempo, proprio al crepuscolo del secolo scorso, mentre la tecnologia prendeva il sopravvento sugli aspetti più artigianali del vino d’autore e uniformava l’espressione perfino dei vini più blasonati, si imposero sul mercato i bianchi ottenuti con macerazioni arcaiche, lasciando fiorire uno dei più autorevoli movimenti artigiani al mondo. In tal senso, vignaioli del calibro di Josko Gravner, Saša Radikon, Dario Prinčič, Stefano Bensa, Damjan Podversic, Franco Terpin e Evangelos Paraskos, meritano tutti la nostra attenzione.

Compreso nella provincia di Gorizia e chiuso tra i Colli Orientali, la Slovenia e l’Isonzo, il Collio è la prima denominazione d’origine controllata ad essere stata riconosciuta nel Friuli Venezia Giulia (24 maggio 1968) e anche l’unica (insieme al Carso) ad avere uno sviluppo esclusivamente collinare.

Colline che, fatta eccezione per la piccola isola di Farra d’isonzo (completamente circondata dalle pianure del fiume omonimo), si sviluppano a forma di mezzaluna e in senso antiorario da Dolegna del Collio fino a Oslavia di Gorizia, passando per Cormòns (vero e proprio cuore viticolo del comprensorio), Capriva del Friuli e San Floriano del Collio. Hanno invece un peso del tutto marginale nell’economia vitivinicola del territorio i comuni di Mossa e San Lorenzo Isontino.

Proprio questa conformazione fa sì che al suo interno si possano individuare due grandi sottozone che per comodità e facilità di lettura chiameremo“esterna” e “interna”. La prima va da Brazzano di Cormòns a Capriva (comprese le sue storiche località: Spessa e Russiz di Sopra e di Sotto) e raggruppa le colline ubicate a stretto contatto con la pianura isontina, dove l’altimetria è modesta e le temperature più elevate rispetto alla media del territorio. La seconda, invece, interessa i comuni di Dolegna del Collio, le località di Plessiva e Zegla di Cormòns, il comune di San Floriano e la frazione goriziana di Oslavia, e abbraccia i luoghi, in taluni casi assai suggestivi, che si snodano lungo il confine sloveno: qui si alza l’altitudine, il vento di bora è più incisivo e le temperature estive si fanno più miti.

La viticoltura del Collio si sviluppa lungo sinuosi terrazzamenti  posizionati in prevalenza tra i 90 e 270 metri sul livello del mare (la media è comunque di poco superiore ai 140) e affonda le sue radici su suoli in buona prevalenza di origine sedimentaria a composizione marnoso-arenacea (conosciuti sia con il nome scientifico di Flysch di Cormòns, sia con il nome vernacolare di ponka). Si tratta di terreni poco fertili, poveri di calcare attivo e piuttosto scarichi di sostanze organiche. Rappresentano invece una rara singolarità le terre rosse acide e non ferrettizzate che si trovano in una piccolissima porzione delle località di Plessiva (frazione di Cormòns) e di Lucinico (frazione di Gorizia).

L’età media dei vigneti è superiore ai vent’anni, ma non sono affatto rare le vigne che superano i quarant’anni di vita, alcune delle quali “plurivarietali”, ovvero coltivate mescolando più vitigni (soprattutto friulano, malvasia istriana e ribolla gialla). Il Guyot semplice è la forma di allevamento più adottata, anche se molti produttori, soprattutto negli impianti più antichi, tendano a conservare il sistema tradizionale, ovvero il Doppio Capovolto o Cappuccina (in genere potato più corto rispetto al passato). Quasi del tutto estinti sono invece Sylvoz e Casarsa.

Variegata è la presenza dei portainnesti: nei siti più vecchi prevale il vigoroso Kober 5BB (pressoché abbandonato negli ultimi anni), mentre in quelli di penultima generazione si è utilizzato soprattutto l’SO4. Oggi invece agronomi e vignaioli subordinano la scelta in funzione della giacitura, della qualità dei suoli e della fittezza dei sesti: 420 A, 101-14, 161-49, 110 Richter e 3309 sono i più diffusi.

Il clima in Collio è tra i più miti e ventilati della regione. La presenza delle Alpi Giulie a nord-est e la relativa vicinanza del mare (da cui dista una trentina di chilometri) assicura temperature estive non molto calde, buone escursioni termiche giorno/notte e precipitazioni frequenti, al solito più elevate nel periodo primaverile e soprattutto nella fascia collinare più interna del territorio (tra Dolegna, San Floriano e Oslavia).

Ora non resta che il viaggio. A chi non ha mai camminato quelle terre, io dico: non avete idea di quanta forza sprigionino; non avete idea di quanto mistero conservino. La gente da quelle parti è gentile e riservata, benché sappia essere a suo modo aperta e festaiola (i triestini non ne parliamo, quelli sono carioca nell’anima). La loro statura è spesso imponente ma la postura è semplice, con sguardi subito accoglienti. È una terra di ardori e di guerre, di sorrisi velati e di cicatrici drammatiche; una terra storta di curve, colorata di chiaroscuri e animata di storie forti.

I friulani sono ospiti generosi, approfittatene.

 Francesco Falcone

Degustatore, divulgatore e scrittore indipendente. 

fra.falcone2003@libero.it 

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