In spiaggia, sulla terrazza più ventilata di Cesenatico, con la leggerezza di chi fa sul serio e la complicità dei “Sommelierdellasera”, abbiamo stappato tante bottiglie più o meno note agli appassionati, provando a riconoscere le caratteristiche essenziali dei tre più importanti nuclei spumantistici d’Italia, qualora si faccia riferimento al Metodo Classico: Franciacorta, Oltrepò Pavese e Trento (accennando, va da sé, al ruolo storico del Piemonte). E insieme ci siamo fatti persuasi, calice alla mano, delle differenze sensoriali più evidenti tra i rispettivi terroir, tenendo conto che la parola terroir trae il suo significato più credibile nell’ambientazione (non nell’ambiente, proprio nell’ambientazione) in cui ogni gesto enoviticolo si compie, da chi il vino lo fa (uomini e donne) a chi il vino lo nutre (la natura), senza dimenticare la storia e la memoria collettiva di ogni distretto.
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La brezza del mare e l’alcol ingerito ci hanno oltremodo stimolato a fare alcune riflessioni intorno al mondo delle bollicine, che mai come oggi necessita di indagini appassionate e di doverose argomentazioni critiche, non certo di consensi né di applausi. Ormai gli spumanti arrivano sulle nostra tavole da ogni angolo di pianeta, si tratta quasi di un’invasione. Non c’è territorio viticolo che sia estraneo alla crescente produzione di vini rifermentati, come in balia di una sindrome brioso-compulsiva che ha tutti i sintomi di una deriva inarginabile.
Un’alta percentuale di cataloghi aziendali prevedono uno spumante, anche in luoghi fino a ieri alieni alla tipologia. Non lo diciamo noi, lo dicono gli analisti più scrupolosi: mai come oggi si è prodotto così tanto vino spumante, nel mondo.
All’alba della storia tutti i vini erano instabili e probabilmente mossi, in particolare nelle zone più fredde del pianeta, ma dal 1800 in avanti, da quando si conosce il percorso microbiologico che rende un vino stabile, non c’è mai stata una tale, enorme produzione di vini pensati – in modo razionale, sistematico e commerciale – per la spumantizzazione. Se poi consideriamo anche la riscoperta commerciale dei vini frizzanti (rifermentati in vasca o in bottiglia), allora il fenomeno assume proporzioni vertiginose.
Di spumanti ve ne sono di ogni tipologia e categoria, senza alcuna soluzione di continuità. E questo un po’ ci confonde, perché non è per niente facile orientarsi e comprendere, scegliere e spendere, assaggiare e comparare. Oltretutto, una grossa porzione dell’offerta spumantisca è alimentata da bottiglie “bevanda” pensate esclusivamente per un consumo sbrigativo, in ossequio allo stereotipo del bere per bere, del bere villano, del bere inconsapevole (e per questa ragione sempre più largamente diffuse e ben accolte dal mercato).
Nondimemo, anche quando si tenta di produrre spumanti di qualità, osservandone con rigore ogni precetto e ogni vincolo, spesso il risultato finale è fragile sul piano del carattere e dell’originalità, in quanto la tecnica tipologica, là dove manca il fuoco sacro del vero terroir, là dove la materia prima è claudicante, là dove il luogo d’origine non ha talento, là dove chi lo elabora manca di sensibilità, tende a prendere il sopravvento. Finendo con l’omologare e annoiare.
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Il mondo della spumantizzazione è più che mai assediato dalla tecnologia, condizionato dal mercato del bere compulsivo, edulcorato dal marketing dell’immagine. E così, troppe referenze sono costruite senza alcuna ragione sentimentale, nello logica del vino industriale, in cui ogni brandello di carattere viene accuratamente limato fino a smarrirsi sulla banalità della superficie: da qui una proposta non di rado irrilevante per l’amatore in cerca di esperienze autentiche.
Non è sempre così, vivaddio. Sappiamo bene che quando si incontra uno spumante di valore, ovvero un Metodo Classico ben concepito e di solido terroir, si beve benissimo e ci si può emozionare. Anzi, si può addiritura affermare che un Metodo Classico, quando è buono, rappresenti la quintessenza del grande vino. Del resto si tratta dell’unico vino “geneticamente” tridimensionale, poiché nasce tre volte: dopo la vinificazione, dopo la presa di spuma, dopo la sboccatura.
Però è raro, incontrare un buon Metodo Classico. E per buono intendiamo quel liquido che porti con sé non solo la precisione dell’elaborazione, ma anche la memoria dei suoi luoghi, il respiro delle sue uve, l’energia che è tipica delle cose autentiche.
Intanto sono rari i Metodo Classico in sé, poiché la maggior parte degli spumanti sul mercato sono elaborati attraverso una rapida rifermentazione in autoclave, partendo sovente da uve di modesta qualità. È vero che molti Conegliano-Valdobbiadene possono essere squisiti e con essi alcuni Prosecco asolani, e talora i più ispirati Asti. Ma si tratta di eccezioni, tanto nobili quanto rare. E lo diciamo a malincuore, non senza un briciolo di amarezza, soprattutto per come è stata gestita la questione della Doc Prosecco, che non è Conegliano Valdobbiadene (oggi meritatamente patrimonio dell’Unesco per la struggente bellezza dei luoghi), ma un’enorme massa di uve e vini senza valore e senza dignità.
Non basta. Poiché oltre alla loro rarità produttiva (che ha ragioni soprattutto economiche, finzianziarie e logistiche), occorre fare i conti con la rarità qualitativa: fuori dalla Champagne, i Metodo Classico che lasciano una traccia, mettendo il bevitore nelle condizioni di pensare, riflettere e riscordare, sono pochi. Per contro, milioni di bottiglie di Metodo Classico non hanno niente di speciale (se non il metodo in sé) e non meritano di conservarsi nella nostra memoria.
La ragione prima è che troppi Metodo Classico appaiono come imprigionati nel modello champenois, costretti in una camicia di forza viticola, enologica, commerciale che, imitando la Champagne, vieta loro un respiro proprio e quell’originalità di cui i bevitori colti sentono il bisogno.
Adottare la Champagne come unica, indiscutibile esperienza universale è stato un vantaggio in principio, ma è un limite oggi. La Champagne rappresenta da più di tre secoli l’esperienza spumantistica di maggiore successo mondiale, la culla di un protocollo di elaborazione che nei secoli ha messo radici ovunque nel pianeta. Ma quelle radici, se non adeguatamente utilizzate, possono soffocare le peculiarità dei singoli distretti.
Di questo ne siamo certi: il futuro del Metodo Classico d’autore in Italia, anche per la delicata questione del riscaldamente globale, passerà giocoforza attraverso una visione più culturale della tipologia. Sarà necessario pensare al Metodo Classico per generare complessità, curiosità, passione, insomma per esaltare un progetto enoviticolo, non per opportunità (e opportunismo) commerciale.
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Se non si vorrà dilapidare l’enorme consenso di pubblico guadagnato in questi anni, allora il Metodo Classico dovrà adattarsi al terroir, non viceversa. Il futuro passerà dunque attraverso una visione più personale e minuziosa di ogni aspetto riguardi il concepimento di un Metodo Classico d’autore; passerà da un’applicazione più meditata della tecniche di elaborazione; passerà attraverso una viticoltura meno in linea con i parametri della Champagne e invece più in sintonia con le peculiarità delle singole zone d’origine; passerà attraverso una più ragionata ricognizione sui vitigni da coltivare e vinificare, aprendo una seria riflessione sull’opportunità di trovare delle alternative a Chardonnay e Pinot Noir, che oggi alle nostre latitudini raggiungono rapide e talvolta violente maturazioni zuccherine, con lacunose maturazioni acide e aromatiche.
Di tutto questo abbiamo ragionato a Cesenatico, e di tutto questo bisognerà parlare e riflettere nei prossimi tempi, a maggior ragione dopo i numerosi riconoscimenti internazionali ricevuti dal Metodo Classico italiano negli ultimi tempi. A tal proposito, dopo gli assaggi dell’altra sera e in virtù di numerose ricognizioni precedenti, anche noi abbiamo espresso un verdetto piuttosto unamime. Il verdetto dice che Trento, per quanto ci riguarda, è la denominazione d’Italia più eccitante per gli appassionati di Metodo Classico.
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In Franciacorta i bravi produttori non mancano (Ca’ del Bosco, Cavalleri, Cà del Vent, Arcari e Danesi, Camossi, Mosnel, Arici) e in Oltrepò Pavese qualcosa si muove alle spalle di Monsupello, ma è Trento che lascia nella nostra bocca il sapore più buono. In virtù di tante cuvée luminose e in grado di dialogare in modo virtuoso con il territorio che le origina.
Francesco Falcone
Degustatore, divulgatore e scrittore indipendente.