lunedì, Febbraio 24, 2025
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La bellezza del vino Di Francesco Falcone

È proprio un bel vino.

Ma che bel vino.

Bello sì, quel vino è proprio bello.

Quante volte lo diciamo? Tante. Troppe.

Bello è una delle parole di abuso quotidiano, dilatata fino a perdere di significato. Sarebbe bello usare bello solo per ciò che effettivamento è bello, a patto di esserne consapevoli. Invece spesso usiamo le parole con l’inerzia dei tic verbali, senza pensarci né tanto né poco, ma affatto.

Eppure c’è un modo per uscirne. La lingua del vino ad esempio si è arricchita nell’ultimo secolo del contributo di Monelli, Veronelli, Soldati, Anderson, Sangiorgi, Rizzari, Castagno, Gravina, Pulcini e De Cristofaro, degustatori educati e scrittori raffinati. Leggiamoli, incontriamoli, confrontiamoci con loro.

Sandro Sangiorgi, un maestro, ha perfino dedicato una dispensa alle parole del vino ne L’invenzione della gioia (Porthos Edizioni), il suo capolavoro. Secondo l’autore quel capitolo è il compimento di un sogno, di chi usa le parole come supporto necessario alla sensorialità, per dare un senso (colto, coltivato) alla pratica della degustazione. È il primo esempio da seguire, per chiunque si metta nei pressi del vino.

Il bello dunque. Quasi sempre si dirà che la bellezza è un’opinione discutibile, che è relativa ad altro e non c’è modo di dimostrarla. Per tanti bello è ciò che piace, confondendo così una qualità con una sensazione. Un malinteso che mette a repentaglio il significato più universale della bellezza, che dovrebbe essere tale al di là del nostro giudizio personale.

Si dira: c’è un modo per affermarla come valore in sé, la bellezza? Forse sì, laddove ad esempio si intenda bello anche ciò che sia buono e ciò che sia vero, essendo il bello, il buono e il vero tre valori riferiti alla medesima unità di senso.

In capo a questo principio, non c’è bellezza senza bontà e verità: se ciò che è buono non è anche bello vero, allora è meno buono; se ciò che è vero non è anche bello e buono, allora non è poi così vero; e se ciò che è bello non è anche vero e buono, forse non è davvero bello.

La bellezza isolata è culto dell’apparenza, dell’effimero, del piacere superficiale; la bontà isolata è sapore senza sapere, passione come fuoco di paglia, godimento incivile; la verità isolata è una procedura dimostrativa che non sostiene l’eccezione, la contraddizione, l’indicibile, e dunque le umanità più umane.

La bellezza integrata, quella che tiene in considerazione anche il vero e il buono, è qualcosa che ricorda la luce, che inonda di luce la vita e le cose della vita. È un talento che non si definisce in un codice personale e che tutti forse possiamo riconoscere, a patto di educarci al suo riconoscimento, alla sua scintilla, alla varietà dei suoi colori.

La bellezza è il riflesso della luce, che a sua volta è energia, perché senza energia non c’è luce; la bellezza è anche verità, perché senza verità non c’è energia e non c’è luce. Quando un vino possiede la luce, l’energia e la verità, allora sfoggia anche un sapore forte, autentico, che tiene desta l’attenzione del degustatore.

In questa catena di bellezza non si parla di proporzione, di coerenza, di armonia; la bellezza non è un ideale moderno di definizione; la bellezza non è invito alla perfezione. La bellezza autentica è semmai un inno alla vita, perché è bello solo ciò che è stato preservato dalla morte. Un vino industriale non potrà mai essere bello.

In tal senso un vino è bello solo se è vitale, solo se concepito con l’amore per le cose che respirano. È dunque possibile che un vino sia bello solo se si lascia attraversare dalla varietà della vita, dai suoi colori, dai suoi profumi, dai suoi sapori, dalle sue asimmetrie, dalle sue imprevedibilità, elementi che sono propri della vita, non di un perfetto surrogato.

Non può essere bello ciò che ha a che fare con l’uniformità, che è per antonomasia negazione della varietà, dei colori e della luce. Tanti vini vengono costruiti per essere identici l’uno all’altro, depurati di ogni tratto vitale, sterilizzati dalle tecniche più aggressive. Quel vino meccanico, seriale, ripetitivo è prodotto dalla più piccola delle intraprese agricole o dal più gigantesco degli enopoli, perché non è nei numeri che si misura la vita. Quel vino fedele ai protocolli più rigidi, alieno alle sfumature, è brutto, non bello. Lo standard è brutto, sempre.

Al contrario, la bellezza si può intercettare attraverso traiettorie ben altrimenti originali. Io ad esempio mi innamoro del sorriso e delle cicatrici. Ecco, del sorriso e delle cicatrici non posso proprio farne a meno.  

Io voglio vini sfregiati e luminosi: è nelle pieghe di quei segni intimi, privati, spontanei, che si annida la bellezza universale.

Nel vino come nella vita. 

Francesco Falcone

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